domenica 2 marzo 2008

Chonin

L'immagine del Giappone è spesso cristallizzata nella figura del samurai, senza sapere invece quanto la storia del Giappone sia stata determinata dai commercianti e dalla piccola borghesia. Il mio articolo sui chonin cerca di far conoscere questo aspetto ignorato.



Articolo di Cristiano Martorella pubblicato dal sito Nipponico.com.

Chonin. Commercio e cultura
L’importanza dei commercianti nella cultura ed economia giapponese
di Cristiano Martorella

20 luglio 2003. Il ruolo svolto dai commercianti (chonin) nel Giappone premoderno e moderno ha avuto la giusta attenzione da parte della saggistica. Purtroppo l’immagine comune e superficiale che si ha del Giappone è fossilizzata sulla rappresentazione del guerriero samurai, offuscando gli altri protagonisti della storia. Si può però rimediare facilmente a tale falsa impressione ricordando quanto è stato evidenziato dagli studiosi più avveduti.
Sono due i punti da rimarcare per una corretta conoscenza della storia economica giapponese:
1) La dinamica e mobilità sociale fra le classi;
2) Il processo di sviluppo capitalistico avvenuto dal basso in modo spontaneo.
La mobilità sociale del Giappone premoderno è stata così elevata quanto dimenticata. Eppure fu questo fenomeno che causò le trasformazioni della struttura economica e sociale del paese. Questa trasformazione avvenne in modo incontrollabile da parte del potere politico shogunale che non seppe adeguarsi e si ritrovò ad assistere all’ascesa della borghesia mercantile (chonin). Gli shogun dell’era Tokugawa ebbero un atteggiamento ambivalente nei confronti della borghesia. A livello ideologico la condannarono sostenendo la validità dei princìpi neoconfuciani e rilanciando le scuole di pensiero conservatrici (Sushigaku, Shoheiko, etc.). Anche ciò produsse però l’effetto contrario perché il neoconfucianesimo giapponese favorì la razionalizzazione negli studi che furono poi alla base della rangaku (scienza occidentale). A livello pratico i Tokugawa gettarono le fondamenta dello sviluppo urbano tanto da creare a Edo, poi Tokyo, il modello metropolitano. Bisogna comunque sottolineare che senza l’unificazione politica del Giappone operata dai Tokugawa, non sarebbe stato possibile lo sviluppo capitalistico e il superamento del modello rurale. Lo storico Yamamura Kozo (1) ha chiarito con dovizia e precisione come lo sviluppo economico del Giappone dell’epoca Meiji (1868-1912) fu un processo spontaneo nato dal basso per merito della borghesia prosperata nel periodo Edo (1600-1867). Risulta così falsa la tesi che sostiene la modernizzazione dell’economia giapponese condotta dall’alto dalle autorità governative, o peggio, indotta dalla penetrazione degli occidentali. Già Edwin Reischauer (2) aveva notato come il feudalesimo giapponese avesse caratteristiche molto simili a quello europeo, e sappiamo quanto questo genere di organizzazione sociale, che favoriva la formazione di centri urbani, fosse importante per creare le condizioni per l’avvio del capitalismo mercantile. Perciò lo sviluppo capitalistico giapponese fu assolutamente autoctono e non indotto dall’esterno. Sorprende che ancora oggi vi sia qualcuno che sostenga la tesi dell’introduzione dall’esterno del modello capitalistico negando di fatto che i giapponesi siano gli artefici della propria storia. Si tratta comunque di una tesi con forti influenze ideologiche che presuppone il primato del sistema occidentale nella sua unicità. Così non è, ed è bene ribadirlo.
Altra caratteristica importante della storia nipponica fu la forte mobilità sociale dal XVI secolo in poi, ovvero il passaggio a classi diverse dal proprio lignaggio e la commistione dei diversi strati sociali che provocava trasformazione, progresso ed evoluzione culturale ed economica. Risulta infatti chiaro e ben evidente che l’immobilità sociale sia antitetica a un sistema capitalistico basato sul libero mercato. Il grande rimescolamento sociale del XVI secolo fece coniare agli storici giapponesi l’espressione ge koku jo (il basso vince l’alto), un’espressione molto efficace ricordata anche dall’orientalista Thomas Cleary. La mescolanza fra le classi avvenne secondo due direzioni. Prima della separazione di contadini e guerrieri operata da Toyotomi Hideyoshi nel 1588 e chiamata heinou bunri, c’era una commistione fra samurai di campagna (goshi) e contadini armati. Un fenomeno ricordato da Kurosawa Akira nel film I sette samurai (Shichinin no samurai, 1954) col personaggio di Kikuchiyo interpretato da Mifune Toshiro. Aspetto ironico della faccenda è che la divisione fu operata da Toyotomi Hideyoshi, uomo di umili origini contadine che era asceso al potere per meriti militari acquisendo il titolo di daijo daijin (ministro), e la nobiltà tramite il sistema dell’adozione (yoshi). L’altro movimento molto più ampio fu quello che avvenne dopo l’organizzazione del XVII secolo con la separazione in quattro classi (shinokosho). Gli uomini di città, ossia i mercanti e la borghesia, furono chiamati chonin. Il potere shogunale cercò di mantenere forzatamente la separazione fra le classi così da garantire il governo della popolazione che non poteva formare un fronte compatto e ribellarsi. Il declino dei Tokugawa fu provocato dall’impossibilità di mantenere questa immobilità sociale. Infatti i samurai si mischiarono ai chonin godendo dei vantaggi della vita urbana e molti di essi cambiarono classe divenendo chonin. I samurai che non cambiarono classe ebbero comunque forti contatti con i borghesi, e come i ronin, samurai senza padrone, vivevano in mezzo a loro. I lavori svolti dai ronin per sopravvivere, come l’insegnamento delle lettere e delle arti, provocarono una diffusione molto vasta della cultura non più riservata a una sola classe. Gli stessi chonin si recavano a teatro per assistere alle storie che vedevano come protagonisti i samurai. Lo spostamento dell’impiego dell’arte dall’aristocrazia alla borghesia è un fenomeno avvenuto anche in Europa nel XIX secolo dopo le trasformazioni sociali avviate dalla rivoluzione francese. In Giappone ciò accadde molto prima, nel XVII secolo del periodo Edo. A ciò si aggiungeva, ed è l’aspetto più importante, la formazione di un tessuto urbano altamente produttivo e con caratteristiche borghesi nettamente marcate. Ciò significa che l’economia dell’epoca si fondava sulla produzione di beni con elevato valore aggiunto, un tratto caratteristico delle società capitalistiche. Tuttavia restava ancora arretrato il sistema monetario, in parte basato sul riso e su diseguali monete d’oro, argento, rame e ferro con cambi vari e disomogenei. Perciò dobbiamo attendere l’era Meiji (1868-1912) per vedere uno sviluppo completo del capitalismo. Comunque la coincidenza nel tessuto urbano del sistema produttivo (economia) e del mondo dell’arte (cultura) nel Giappone del periodo Edo (1600-1867) è un aspetto estremamente significativo. Soprattutto indica la forza del rapporto cultura/economia nella storia giapponese. Passiamo a ricordare quanto la cultura della borghesia (chonin bunka) fosse dominante nonostante l’avversione dell’ideologia delle autorità governative. La cultura Genroku (1688-1704) fu rappresentata dalla letteratura del Kamigata e dai nomi di Ihara Saikaku, Matsuo Basho e Chikamatsu Monzaemon. Nato da una famiglia di commercianti di Osaka, Ihara Saikaku divenne celebre per le sue opere di eccezionale realismo. Nella serie di racconti intitolati Nippon eitaigura (Il magazzino eterno del Giappone, 1688), egli narra le vicende di persone arricchite o impoverite. Ihara Saikaku ammette in modo spudorato e sincero l’attitudine dei chonin con la seguente frase: Yo ni zeni hodo omoshiroki mono wa nashi (In questo mondo non c’è niente di più interessante dei soldi). L’aspetto che stiamo sottolineando è la coincidenza di cultura ed economia che traevano la propria forza dallo stesso tessuto sociale. Si pensi a Ejima Kiseki (1667-1736), un mercante che divenne scrittore, oppure un intellettuale poliedrico come Hiraga Gennai (1728-1779) che fu ronin, ceramista, botanico, inventore e scrittore. Costoro, con le dovute differenze di estrazione sociale, vivevano però nello stesso mondo e condividevano la stessa vita urbana dell’epoca. La drammaturgia e la narrativa erano finanziati dai ricchi chonin. Come nel caso di Ejima Kiseki, gli editori (per questo scrittore fu Hachimonjiya) erano enormi librerie che sovvenzionavano gli autori. Il sistema produttivo prosperava grazie alla creatività dei cittadini borghesi e l’espansione capitalistica era avviata da tale spirale virtuosa in cui chi produceva era anche consumatore (ciò è completamente diverso dal sistema rurale dove l’aristocrazia era parassitaria). La nascita dell’economia giapponese avvenne dal basso e in modo spontaneo. Così fu per la cultura, tanto che si può dire che la cultura pop giapponese più diffusa fu quella dell’epoca Edo, se vogliamo usare una terminologia attuale e di moda. E’ bene ricordare che questa idea della nascita della cultura pop nell’epoca Edo è stata proposta dall’architetto Ueda Atsushi. L’autorevole storico Yamamura Kozo, spiega in modo molto chiaro il concetto della nascita dal basso dell’economia e cultura giapponese.
"E’ fuori dubbio che il Giappone sia un paese moderno e che faccia parte dell’Asia: la conclusione evidente è che esso dovette modernizzarsi secondo proprie modalità. Un kimono in fibra sintetica richiama alla mente tanto l’abbigliamento di un samurai quanto l’architettura di un impianto chimico gigantesco e molto complesso: non è per questo necessario chiamarlo un tailleur, né definire magia occidentale un processo chimico. Al pari di un kimono di rayon, l’economia giapponese è un prodotto dell’industrializzazione, ma la modernizzazione che l’ha accompagnata non ha occidentalizzato il paese sino al punto da cancellare completamente il retaggio peculiare della sua storia e della sua cultura. Se questo è il motivo principale del fascino che la storia economica del Giappone esercita su di noi, va aggiunto che la capacità di divenire moderno senza perdere il senso della propria eredità nazionale è in fin dei conti il segreto del successo industriale dell’arcipelago." (3)
Nonostante sia evidente a tutti, il pregiudizio che i giapponesi abbiano copiato dagli occidentali, sia le strutture sociali sia le tecniche, è difficile da estirpare. Ammettere che il modello occidentale di civiltà non è l’unico e il migliore è ancora troppo difficile o addirittura un tabù (4). Così si impedisce la comprensione della storia economica, ma vi si può porre rimedio.


Note
1. Yamamura, Kozo, L’industrializzazione del Giappone. Impresa, proprietà, gestione, Storia Economica Cambridge, Vol. VII, Giulio Einaudi, Torino,1980.
2. Cfr. Reischauer, Edwin, Storia del Giappone dalle origini ai giorni nostri, Bompiani, Milano, 1994, p.44.
3. Yamamura, Kozo, L’industrializzazione del Giappone. Impresa, proprietà, gestione, Storia Economica Cambridge, Vol. VII, Giulio Einaudi, Torino, 1980, p.321.
4. In proposito ha ricevuto apprezzamento da parte degli economisti la denuncia di questo tabù da abbattere. Martorella, Cristiano, Il concetto giapponese di economia, XXV convegno di studi sul Giappone, Venezia, 6 ottobre 2001.

Bibliografia
AA.VV., Nihon zenshi, Daigaku Shuppankai, Tokyo, 1958.
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Articolo di Cristiano Martorella pubblicato dal sito Nipponico.com.

sabato 1 marzo 2008

Fukoku kyohei, militarismo e libero mercato

Fra gli argomenti più avvincenti riguardanti il Giappone, merita una particolare attenzione la storia, spesso fraintesa e mal conosciuta, del paese del Sol Levante. Sono tante le questioni che meritano un approfondimento, e certamente la più scottante è quella che riguarda il militarismo giapponese. In proposito propongo il mio intervento pubblicato dal sito Nipponico.com. In questo articolo cerco di fare chiarezza su alcuni aspetti ignorati e fraintesi che hanno portato allo sviluppo del militarismo giapponese del XX secolo, spesso confuso e identificato con il governo della classe dei samurai delle epoche precedenti.




Articolo di Cristiano Martorella pubblicato dal sito Nipponico.com. L'articolo è disponibile nel dizionario del sito Nipponico.com alla voce Fukoku kyouhei.



Fukoku kyohei
Militarismo, colonialismo e libero mercato
di Cristiano Martorella

19 giugno 2005. L’espressione fukoku kyohei (paese ricco ed esercito forte) fu lo slogan usato nell’era Meiji (1868-1912) che ben descrive il militarismo (gunkokushugi) che permeò il moderno Giappone fino alla metà del XX secolo. Dell’argomento si parla spesso con superficialità cadendo nelle consuete banalizzazioni strumentali all’ideologia corrente, senza capire quali siano le motivazioni dell’agire dei protagonisti della storia. Perciò è necessario fare un po’ di chiarezza anche a costo di essere anticonformisti e controversi. Soprattutto sarà il metodo storico comparativo(1) a permetterci di analizzare gli eventi liberandoci della visione pregiudizievole dell’ideologia. Non bisogna dimenticare che lo storico Noro Eitaro (1900-1934) nella sua Storia dello sviluppo del capitalismo giapponese (Nihon shihonshugi hattatsushi) dimostrò per primo la validità del metodo comparativo applicato alla storia giapponese (2).
Lo scopo della nostra analisi verterà quindi sull’esplicazione dei rapporti fra militarismo e libero mercato, mettendo in evidenza i seguenti punti:
1) Differenza fra il militarismo capitalista moderno e il militarismo aristocratico feudale;
2) Origini rurali dell’estrema destra giapponese e debolezza della borghesia liberale;
3) Imitazione giapponese del modello coloniale e militarista occidentale;
4) Persistenza del modello militarista "paese ricco ed esercito forte" nelle democrazie del XXI secolo.
La distinzione fra guerrieri aristocratici samurai ed esercito nazionale di plebei della leva obbligatoria, appare chiaramente evidenziando alcuni eventi cruciali della storia. La coscrizione obbligatoria per l’esercito fu avviata nel 1873, ed era soltanto uno dei passaggi di un grande processo di mutamento della struttura sociale giapponese. I samurai erano stati per secoli i migliori funzionari del Giappone feudale. Oltre ad essere guerrieri abilissimi, erano preparati nelle lettere e nelle arti, risultando un ottimo strumento dell’amministrazione finché non apparve con risalto il declino del potere dello shogun. Il Giappone feudale si scontrò con le nazioni colonialiste occidentali, presentando l’impossibilità di competere con l’organizzazione moderna industriale, anche e soprattutto con la struttura burocratica nazionalista degli stati capitalisti del XIX secolo. Il Giappone era un efficiente impero feudale dell’Oriente, ciò non era però sufficiente per un confronto paritario con la forza militare dell’Occidente finché non fosse divenuto uno stato moderno capitalista. D’altronde era la forza militare che garantiva la penetrazione dei commerci occidentali nelle colonie, garantendo l’esistenza di un libero mercato imposto con l’uso delle armi (3). La coscrizione obbligatoria era soltanto un passaggio della trasformazione del Giappone. Però i samurai, esclusi e ridimensionati nella nuova società, si ribellarono all’evidente svantaggio che li privava dei privilegi e diritti della casta aristocratica, a partire dal diritto di portare pubblicamente le due spade simbolo del guerriero. Già nel 1874 si ebbe a Saga una rivolta guidata da Eto Shinpei (1834-1874) soffocata dal governo. Nel 1876 la ribellione dei samurai avvenne a Kumamoto. Poco dopo la rivolta esplose a Kagoshima, dove quindicimila samurai si scontrarono con quarantamila contadini arruolati e ben equipaggiati dal governo. Il capo dei ribelli era Saigo Takamori (1827-1877), già ministro dimessosi per protesta e valente guerriero. Ma i samurai erano ormai sia tecnicamente sia politicamente obsoleti, e non poterono opporsi all’avanzata delle riforme propulse dall’accoppiata industria e capitale. Il 24 settembre 1877, Saigo Takamori fu sconfitto e perse la vita nell’ultimo scontro decisivo per i samurai.
Lo scontro fra samurai ed esercito di coscritti ebbe come conseguenza anche le rivendicazioni sociali di una massa di plebei che erano ben lontani dalle idee illuministe di eguaglianza, fratellanza e libertà, concetti recepiti soltanto dalla borghesia colta e da alcuni aristocratici intellettuali (4). Questi strati della plebe alimentarono la formazione di una destra estremista che in nome del patriottismo auspicava l’uso della violenza per imporre il proprio governo autoritario. Un tentativo riuscito che portò prima alla penetrazione nelle forze armate, poi al controllo del governo da parte dell’esercito. La formazione di forze armate composte da contadini fu un processo che attinse a un movimento spontaneo. I contadini avevano costituito autentici eserciti ostili al governo dello shogun, il bakufu, e le loro rivolte avevano indebolito il potere militare dei Tokugawa, fino al crollo definitivo nel 1867. La coscrizione obbligatoria del 1973 integrò i contadini nella nuova società, però comportò anche gravi squilibri. Praticamente il nuovo stato nasceva tramite una militarizzazione di massa, a discapito delle forze sane e propulsive dell’economia come i commercianti (chonin). Intanto il malcontento dei samurai fu placato inserendoli nell’apparato burocratico come funzionari governativi, amministratori locali, membri della polizia, e personale scolastico docente e amministrativo. Ruoli che svolsero zelantemente grazie all’indubbia preparazione.
Il governo Meiji, preoccupato della minaccia di insurrezioni, cercò di evitare ad ogni costo il conflitto di classe generando così una situazione pericolosa ignorata da tutti, ovvero la militarizzazione della società. Anche l’industria si sviluppò in tal senso privilegiando l’industria pesante utile alle costruzioni belliche. Questi squilibri erano amplificati dalla debolezza della borghesia giapponese. Lo sviluppo del paese aveva come obiettivo la potenza militare, viceversa mancava una borghesia intellettuale che sostenesse l’arricchimento del paese per il benessere dei cittadini. C’erano numerose eccezioni, ma si trattava di intellettuali dalle idee brillanti che raramente trascinavano il consenso delle masse. Ed erano essi stessi a denunciare la pericolosità del conformismo dell’opinione pubblica. Lo slogan fukoku kyohei (paese ricco ed esercito forte) andava così interpretato come paese ricco per un esercito forte, ciò nell’acclamazione generale delle folle. Nonostante l’impiego di masse contadine, l’esercito fu molto lontano dall’avere un pur minimo aspetto democratico essendo ancora dominato da interessi personali. Yamagata Aritomo del feudo di Choshu assunse il comando della guardia imperiale dal 1872, così da stabilire il predominio della sua signoria sull’esercito fino all’inizio del XX secolo. Yamagata Aritomo fu anche l’artefice di una ordinanza che stroncava qualsiasi attività democratica nell’esercito, e imponeva una rigida politica reazionaria. Paradossalmente si formava così un esercito privo di ideali aristocratici e composto da plebei ostili alla democrazia, inoltre ciò avveniva in un paese formalmente democratico con leggi e istituzioni liberali. Purtroppo un simile processo non era qualcosa di particolare, ma aveva come modello le potenze coloniali occidentali. D’altronde gli eserciti occidentali delle democrazie liberali non hanno mai avuto alcun ordinamento democratico, costituendo la contraddizione palese di un sistema autoritario gerarchico all’interno di sistemi politici a rappresentanza elettorale. La contraddizione è tuttora ignorata, anche quando le forze armate delle democrazie si rendono colpevoli di crimini di guerra, sempre definiti come rare eccezioni, in realtà né rare né eccezioni.
La struttura dell’esercito giapponese divenne estremamente pericolosa quando cominciò a controllare la politica e a saldare l’alleanza con le cricche economiche (zaibatsu). Il binomio libero mercato e militarismo non è così inconsueto se si considerano le economie delle potenze coloniali occidentali. Il militarismo giapponese non è un’eccezione, ma il perseguimento di una regola, quella regola espressa dallo slogan paese ricco ed esercito forte.
Il fenomeno delle formazioni politiche paramilitari e militari è tipico della prima metà del XX secolo, e può essere inquadrato col termine fashizumu (fascismo) usato ampiamente anche da Maruyama Masao. Anche se è ancora controversa la definizione di "fascismo giapponese", poiché mancava un partito unico ed esistevano altre caratteristiche peculiari, si può essere concordi su ciò che si intende definire (5). Come fasciste si intendono le organizzazioni militari armate che praticavano violenze, compreso l’omicidio degli avversari politici e il colpo di stato, con lo scopo di controllare il paese e rafforzare la propria ideologia distorta della via dell’imperialismo (kodo). Queste formazioni militari avevano origine nelle campagne ancora radicate a valori reazionari e antiprogressisti, in tutto e per tutto ostili ai valori liberali. Per queste masse di contadini la dialettica delle istituzioni democratiche era una degenerazione sociale e politica. Non accettavano i principi liberali e la garanzia dei diritti, invocando invece il principio d’autorità, il rispetto delle gerarchie e l’uso della forza. Ci furono parecchi fautori della svolta autoritaria che tentarono di teorizzare ciò che gli eventi tumultuosamente affermavano. Uchida Ryohei (1874-1937) sosteneva che i confini del Giappone dovessero essere estesi fino al fiume Amur in Cina, e fondò la Kokuryukai (Società del drago nero). Un altro leader ultranazionalista fu Toyama Mitsuru (1855-1944), fautore del dominio dell’Asia sotto la guida del Giappone (panasiatismo nipponico) e organizzatore di numerosi attentati politici. Sicuramente il primo e più agguerrito teorico del nazionalismo estremista giapponese fu Kita Ikki (1883-1937) che sosteneva l’eliminazione del parlamento, l’abolizione della costituzione, l’instaurazione di un’economia popolare contro zaibatsu e latifondi, e l’occupazione della Cina. Kita Ikki fu implicato in un tentativo di colpo di stato e venne giustiziato proprio da quella autorità imperiale che egli strumentalmente appoggiava.
Il 15 maggio 1932 il primo ministro Inumai Tsuyoshi fu assassinato da un gruppo di ufficiali dell’esercito e della marina ponendo fine all’ultimo governo sostenuto dai partiti senza influenze militari. Il 26 febbraio 1936 si sollevarono ventidue giovani ufficiali dell’esercito e della marina alla guida di 1400 uomini che uccisero alcuni importanti politici, fra cui il ministro delle finanze Takahashi Korekiyo e l’ammiraglio Saito Makoto, e occuparono vari palazzi. In nome di una presunta autorità imperiale, essi invocarono un rinnovamento del paese e la fedeltà assoluta all’imperatore. Fu lo stesso imperatore Hirohito a soffocare la sommossa inviando l’esercito contro i ribelli. Però la situazione era ormai compromessa, e con la giustificazione dell’ordine pubblico l’esercito eliminò ogni opposizione. L’imperatore Hirohito rimase così ostaggio della politica militarista, e anche se appoggiò i leader moderati e contrari alla guerra, come Konoe Fumimaro, non riuscì ad opporsi con forza alla follia dei governi presieduti da generali come Tojo Hideki.
I militari erano fuori dal controllo delle istituzioni e prendevano iniziative autonome che trascinavano poi il paese nel baratro oscuro (kurai tanima). Risulta evidente che chi doveva difendere le istituzioni le stava invece demolendo. Inoltre lo scontro nelle forze armate era esasperato perché da una parte la marina (kaigun) si ispirava al modello inglese, non concordando gli obiettivi con l’esercito (conquista della Cina e guerra con gli Stati Uniti), dall’altra anche all’interno dell’esercito chi si opponeva alle concezioni retrograde era considerato un avversario da eliminare.
Questa situazione complessa è ancora più articolata se si considera dinamicamente il quadro che la costituisce. Il militarismo giapponese fu alimentato dal movimento rurale (nohonshugi) delle campagne che fornì l’ideologia e gli uomini, trovò nell’esercito la struttura e l’istituzione che permetteva la penetrazione politica, ma il sostegno materiale fu fornito dai gruppi economici (zaibatsu) che attraverso la guerra potevano trovare uno sbocco commerciale per le produzioni belliche. Capitalismo e ruralismo si accoppiarono col comune interesse di creare nuovi mercati attraverso l’uso della forza militare, così da perpetuare il modello famigliare al di là dei confini nazionali. Perciò è appropriata l’espressione che definisce la grande famiglia panasiatica (daitoa kyoeiken), l’area di comune prosperità, anche se distorta, illiberale e assurda. Però ancora oggi non è stata soppiantata l’idea di creare un modello politico unico attraverso l’uso della forza militare e l’espansione del mercato economico. Dopo la fine del fascismo e del socialismo, sembra essere in discussione anche l’univoco modello della democrazia capitalista come modello egemone, perché nella forma della globalizzazione ricompare lo stesso militarismo che si era alleato col capitalismo. Con la giustificazione della lotta al terrorismo, non sono più i fascisti a sostenere la necessità dell’uso della forza militare per garantire l’ordine sociale, ma i governi democratici. Uno smacco che annienta secoli di lotte per i diritti civili.


Note
1. Il metodo comparativo applicato alle scienze storico-sociali è estremamente efficace ma difficilmente recepito nella sua portata e profondità. Illustri storici come Otto Hintze, Karl Lamprecht, Wilhelm Roscher e Max Weber, fecero ampio uso del metodo comparativo. Nella formazione accademica di chi scrive ha avuto importanza l’insegnamento di Giuseppe Di Costanzo, studioso appunto di questi autori presso l’Università Federico II di Napoli.
2. Sempre Noro Eitaro affermò che bisogna prendere in esame l’ineluttabilità (hitsuzen) della storia, piuttosto che l’occasionalità (guzen). La storia non è un racconto qualunque che si può interpretare a piacere, ma una connessione di fatti.
3. Emblematici i casi dell’India e della Cina sottomesse dalla forza della più potente economia liberista del mondo. La Gran Bretagna, culla della rivoluzione industriale e fautrice del libero mercato, fu anche il più grande impero coloniale del XIX secolo, estendendo i suoi domini e il controllo dei traffici commerciali su tutto il pianeta. Truppe e cannoniere britanniche tutelavano sia gli interessi politici sia quelli economici, spesso coincidenti. Fu per motivi commerciali che scoppiò la Guerra dell’oppio (1840-1842). Infatti fu imposto alla Cina di importare l’oppio prodotto dalle colonie britanniche nell’Asia centrale. Il rifiuto portò al bombardamento di Nanchino, il blocco di Canton e l’acquisizione di Hong Kong tramite un contratto, oltre al pagamento in denaro dell’indennizzo di guerra. Cfr. Herbert Franke e Rolf Trauzettel, Storia Universale Feltrinelli, L’impero cinese, Vol.19, Feltrinelli, Milano, 1969.
4. Fra i samurai sostenitori delle idee illuministe e liberali spicca la figura di Fukuzawa Yukichi (1834-1901), autore di Incoraggiamento al sapere (Gakumon no susume) e La condizione dell’Occidente (Seiyo jijo).
5. Il dibattito sul fascismo giapponese (fashizumu ronso) è ancora vivo, pur risalendo alla controversia fra la scuola Koza e la scuola Rono, legata ai socialisti Yamakawa Hitoshi e Inomata Tsunao.


Bibliografia
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Vantaggi, Adriano, Giappone 1853-1905: Dalla fine dell’isolamento al ruolo di grande potenza, Lassa-Scalese, Genova, 1984 .



Articolo di Cristiano Martorella pubblicato dal sito Nipponico.com.