domenica 27 dicembre 2009

I dilemmi di Hatoyama Yukio

Il cambio della leadership politica in Giappone ripropone alcune difficili questioni. Al premier Hatoyama Yukio si presenta l'occasione di impostare una nuova strategia per la nazione. L'idea di Hatoyama è certamente costituita da una visione più asiatica, contraria all'isolamento del Giappone. Ciò riprende una impostazione già presentata dal nonno di Hatoyama Yukio, il premier Hatoyama Ichiro. Fu appunto Hatoyama Ichiro che portò il Giappone nel 1955 alla Conferenza di Bandung, il vertice dei paesi non allineati che sembrò anticipare un blocco asiatico contrapposto a Stati Uniti e Unione Sovietica. E fu sempre Hatoyama Ichiro a capo della cosiddetta fazione anti-Potsdam che osteggiò il basso profilo di Yoshida e il suo filoamericanismo. Infine Hatoyama Ichiro ottenne il più grande successo con la normalizzazione dei rapporti con l'Unione Sovietica, e la partecipazione del Giappone all'Organizzazione della Nazioni Unite.
Oggi, il nipote Hatoyama Yukio ripresenta un progetto strategico simile. Secondo Hatoyama Yukio, l'era della leadership mondiale americana è finita. Quindi è necessario creare un blocco asiatico che ricalchi un'integrazione sul modello europeo, possibilmente con una moneta unica e il richiamo diretto al principio di sussidiarietà. L'idea di Hatoyama Yukio si scontra con evidenti difficoltà dovute alla differenza di potere fra la Cina e i paesi vicini. Mentre la Cina accresce la sua potenza economica e militare, gli altri paesi restano a guardare recitando la parte degli spettatori. Inoltre, lo sviluppo economico della Cina non sta contribuendo minimamente allo sviluppo democratico del paese, anzi si esasperano le tensioni represse in modo brutale e durissimo dal regime. Queste sono le difficoltà che i leader asiatici dovranno affrontare e non potranno più evitare a lungo.
Cristiano Martorella

sabato 26 dicembre 2009

Hatoyama Yukio e lo yuai

Lo slogan più noto della campagna di Hatoyama Yukio è stato esposto tramite il concetto di yuai, tradotto in Occidente come "fratellanza". La parola yuai, composta dai kanji di amicizia (yu) e amore (ai), è propriamente e più semplicemente il sentimento di amicizia e solidarietà.
Accanto allo slogan dello yuai ci sono i problemi delle nuove generazioni di cittadini giapponesi. Infatti i processi di deregulation voluti fortemente da Koizumi Jun'ichiro, e sintetizzati nel termine kisei kanwa, hanno riguardato anche il mercato del lavoro. Attualmente la maggioranza dei giovani giapponesi trova un lavoro con contratto a tempo determinato, e rimane imprigionato nella logica della precarietà che è tanto vantaggiosa per le aziende, le quali non si fanno più carico degli oneri dell'assunzione dei lavoratori. Questo sistema non ha trovato però nessun bilanciamento nel welfare state, anzi si è visto un progressivo smantellamento delle strutture assistenzialiste. I politici, invocando l'alleggerimento dello stato e l'eliminazione dell'assistenzialismo, hanno favorito un progressivo indebolimento delle istituzioni. Con la scusa del debito pubblico, sempre utile per varare campagne impopolari, si è erosa ogni forma di protezione sociale. Questi processi non hanno coinvolto soltanto il Giappone, ma fanno parte di un movimento globale che ha interessato tutti i paesi sviluppati.
In questo ambito non basta più annunciare la presenza del sentimento della "fratellanza", ma si devono anche applicare politiche economiche coerenti. In questi due anni di crisi invece è avvenuto l'esatto opposto. Negli Stati Uniti gran parte del denaro pubblico è stato impiegato per finanziare le banche e le istituzioni economiche colpevoli del crack, e i vecchi vizi di premiare con ricchi bonus i manager non sono spariti. Nessuno stato sviluppato si è preoccupato di affrontare la crisi sociale, preoccupandosi soltanto di proteggere la borsa e la finanza senza applicare quei cambiamenti necessari nelle regole.
In un simile contesto invocare i sentimenti, come la "fratellanza", è pericolosissimo. Infatti un sentimento segue l'altro, e la mancanza di reale fratellanza può generare il sentimento opposto, ossia l'invidia e l'odio. I sentimenti non sono controllabili, e giocare con queste emozioni risulta dannoso, specialmente se a farlo sono i politici.
Cristiano Martorella

venerdì 25 dicembre 2009

Suzuki si allea con Volkswagen

Nel centenario della Suzuki, si realizza una grande alleanza fra il gruppo automobilistico giapponese e la Volkswagen. Con l'acquisto del 20% del capitale della Suzuki, la Volkswagen stabilisce una forte partnership con l'alleato nipponico.
La Suzuki ha una grande tradizione industriale. Nel 1909 venne fondata ad Hamamatsu da Suzuki Michio, ed era inizialmente una fabbrica di macchinari. Nel 1939, così come era avvenuto anche per Nissan e Toyota, la produzione fu concentrata sugli autoveicoli che sarebbero diventati cruciali nel mercato commerciale del ventesimo secolo.

Cristiano Martorella

domenica 20 dicembre 2009

Murakami Haruki contro il conformismo

Murakami Haruki contro il conformismo e la semplificazione

In alcune interviste, in particolare quella rilasciata al quotidiano Yomiuri, lo scrittore Murakami Haruki si è scagliato duramente contro la tendenza alla semplificazione e banalizzazione dei nostri tempi, che egli ritiene la vera fonte di ogni fondamentalismo. Murakami così si esprime sulla questione:

"Mentre il mondo diviene sempre più caotico, il fondamentalismo della semplificazione acquista presa. In una situazione così complessa, pensare in proprio richiede sforzi considerevoli. Perciò la maggior parte della gente prende in prestito frasi altrui, di pronto consumo, e pretende che siano farina del proprio sacco. Questa maniera di pensare è collegata al fondamentalismo."

Murakami tocca un punto squisitamente politico, indicando la questione del nostro tempo. Cioè, se le masse riescano a gestire la complessità oppure preferiscano essere indottrinate con slogan, semplificazioni, annunci pubblicitari, e bassa qualità. Secondo Murakami questa tendenza a semplificare è la radice del fondamentalismo. Il fondamentalismo è avere un'unica idea che rifiuta la complessità della realtà e pretende di spiegare tutto soltanto attraverso la semplificazione e il riduzionismo. Così non c'è nemmeno spazio per pensare perché tutto è già schematicamente determinato attraverso i pregiudizi.
Ricevendo il Jerusalem Prize, Murakami Haruki ha detto:

"Fra un muro e un uovo che vi si spacca contro, io starò sempre dalla parte dell'uovo".

Con questa immagine metaforica, Murakami allude al muro del pregiudizio e dell'intolleranza, al fondamentalismo che la politica, occidentale e orientale, sta alimentando fra le masse sempre più indebolite e spaventate. Inutile aggiungere quanto sia scottante e di attualità la riflessione introdotta da Murakami Haruki che si presenta come uno scrittore particolarmente attento e dotato.

Cristiano Martorella


Indicazioni bibliografiche: Giovanna Zucconi, Che libro fa... in Giappone, Tuttolibri, in "La Stampa", sabato 4 luglio 2009, p. XIV.

Filosofia comparata giapponese

Articolo sulla filosofia giapponese pubblicato dalla rivista "Diogene Filosofare Oggi". Cfr. Cristiano Martorella, La Verità e il Luogo. Convergenze e divergenze fra la filosofia occidentale e giapponese, in "Diogene Filosofare Oggi", n.4, anno 2, giugno-agosto 2006, pp.14-19.


La Verità e il Luogo. Convergenze e divergenze fra la filosofia occidentale e giapponese.
di Cristiano Martorella
 
Occuparsi di filosofia giapponese in Europa e America presenta due difficoltà peculiari. La prima consiste nella distanza sia fisica sia culturale della società giapponese, con delle evidenti ricadute nell’ignoranza dei testi che costituiscono la base delle argomentazioni filosofiche orientali. La seconda difficoltà, molto più profonda e ostica, è di genere filosofico, e consiste nel rifiuto della diversità culturale. L’apice di questo rifiuto è stato raggiunto da Donald Davidson in Verità e interpretazione. Nel par.13 intitolato Sull’idea stessa di schema concettuale, Davidson sostiene che non possono esistere schemi concettuali completamente diversi perché altrimenti sarebbero inintelligibili e incomunicabili. L’argomentazione sembra quindi ridimensionare il concetto di diversità che potrebbe essere solo parziale. Ma è una argomentazione basata sull’equivoco del concetto della diversità considerata come opposizione e contrarietà, e soprattutto sul fraintendimento operato nell’identificazione generica di comunicazione e significato. In Rinnovare la filosofia, Hilary Putnam smaschera l’errore di Donald Davidson, ed evidenzia l’arbitrio e la forzatura operati nei confronti della nozione di significato. La concezione formalista di Donald Davidson che lega il significato al valore di verità (attraverso la convenzione v e la teoria tarskiana) mal si adegua a comprendere il relativismo concettuale che ci viene presentato dalla filosofia giapponese e dalle altre filosofie orientali. Ovviamente l’influenza della filosofia analitica, di cui Davidson è il più degno esponente, si ripercuote sulla considerazione dei sistemi filosofici orientali considerati banalmente come rappresentazioni esotiche completamente irrazionali. Se invece accettiamo di mettere da parte l’idea della diversità come opposizione e contrarietà, e ammettiamo piuttosto che la diversità include anche la condivisione dei differenti significati del mondo (pluralismo epistemico), possiamo procedere nella riflessione senza cadere nella semplificazione e strumentalizzazione dello scontro di civiltà (clash of civilizations) tanto di moda. Tenteremo quindi di comprendere la filosofia giapponese con uno studio comparato che non escluda le somiglianze e nemmeno le differenze, tutto ciò per il vantaggio che la conoscenza dell’altro può apportare.
La diversità epistemica della filosofia giapponese ha origine dai princìpi e fondamenti di carattere buddhista che ne sono alla base. Innanzitutto l’ontologia giapponese concepisce l’esistenza come un continuo cambiamento. Il divenire è possibile perché i fenomeni non avrebbero una sostanzialità. Secondo un celebre detto buddhista, il nulla costituisce la realtà fenomenica. Il fenomeno è ciò che è vuoto, il vuoto è ciò che è fenomeno (shiki soku ze ku, ku soku ze shiki). Nel Vajracchedika si afferma con altrettanta radicalità questo principio. Tutto ciò che ha forma è illusorio. E quando si vede che ogni forma è vuota si riconosce il Buddha. Tutte le cose sono Buddha. Questa teoria potrebbe apparire incoerente e contraddittoria se non fosse stata sviluppata con dovizia e logica dai maestri della filosofia orientale. Nagarjuna, che approfondì la teoria della vacuità e dell’insostanzialità dei fenomeni, indicò come ogni cosa fosse interdipendente nel cosmo, e quindi indicò l’impossibilità delle cose a sussistere in maniera indipendente. Ogni cosa non ha propria sostanza, ma esiste in virtù delle relazioni con le altre. L’unica realtà autentica è il cosmo nella sua totalità. Ogni fenomeno è semplicemente la manifestazione effimera e transitoria dell’esistenza mutevole del cosmo. Questo è il principio dell’impermanenza delle cose mondane (shogyo mujo).
Dunque il dharma (la dottrina di Buddha) contiene il nucleo filosofico che caratterizza l’Estremo Oriente. In esso si possono distinguere tre insegnamenti: ku (non-sostanzialità), ke (transitorietà), chu (via di mezzo). Si è già vista l’impermanenza o transitorietà delle cose, così anche la non-sostanzialità o vuoto. Il terzo principio, la via di mezzo, esprime una logica che rifiuta il dualismo vero-funzionale. Per la filosofia giapponese, la realtà è continuo cambiamento, quindi non si possono definire i fenomeni secondo le categorie di vero e falso che sono ipostatizzazioni, ovvero astrazioni distanti dal reale. Il mondo non è bianco oppure nero, non corrisponde a una logica binaria. Il principio della via di mezzo afferma che il reale è pluralismo e complessità. Questa valutazione del pensiero non è soltanto un rifiuto della logica vero-funzionale e una adesione alle logiche polivalenti, ma è soprattutto una differente considerazione del pensiero che è ritenuto uno strumento d’indagine piuttosto che una attendibile rappresentazione del reale. Se la conoscenza del reale non può avvenire tramite il pensiero, allora com’è possibile? Secondo la filosofia orientale la conoscenza del reale (prajna) avviene soltanto tramite un’illuminazione. L’illuminazione (satori) è la condizione della conoscenza che non separa il soggetto e l’oggetto. La conoscenza del reale è conoscenza dell’interdipendenza dei fenomeni e dell’impossibilità dei fenomeni a sussistere indipendentemente. L’illuminazione non è perciò una conoscenza speculativa, ma è pura intuizione, un’esperienza a cui si può giungere attraverso le tecniche meditative. Il non-dualismo è concepibile perché in base a quanto detto in precedenza, la non-sostanzialità presuppone che non vi sia una reale divisione fra i fenomeni, nemmeno fra soggetto e oggetto. Non potrebbe essere altrimenti poiché essi non hanno sostanza. La divisione avviene soltanto nella mente che possiede spiccate capacità analitiche. Il principio di esho funi (non-dualismo di ambiente e soggetto) ribadisce che la vita non è possibile fuori dal suo ambiente, e quindi le cose vanno concepite come sistemi complessi dotati di articolate relazioni piuttosto che come entità singole e indipendenti.
Adesso che abbiamo brevemente visto i fondamenti della filosofia giapponese, possiamo passare a considerare i rapporti con la filosofia occidentale. Quando nel XVI secolo gli studiosi giapponesi incontrarono la scienza europea, in quel periodo indissolubilmente legata alla filosofia, si posero immediatamente il problema di trovare delle definizioni che permettessero di inquadrare il nuovo sapere. L’arrivo della filosofia e scienza europea trovò un ambiente intellettualmente florido grazie alla filosofia buddhista già diffusa. Ciò implicò un necessario confronto fra il sapere orientale già acquisito e il nuovo sapere occidentale. I giapponesi cercarono di organizzare le conoscenze e gli studi occidentali con opportune definizioni. Inizialmente, nel XVI secolo, le avevano chiamate nanbangaku (scienze dei barbari del sud). Ma quando furono approfonditi gli studi nel periodo Edo (1603-1867) si preferì chiamarle rangaku (scienze olandesi) dal nome della nazione che aveva stretto rapporti commerciali intensi col Giappone. Nel 1774 Yoshinaga Motoki (1735-1794) pubblicò Tenchi nikyu yoho (Metodo sull’uso dei globi terrestri e celesti) che divulgava la teoria eliocentrica di Copernico. Nel 1784 Tadao Shizuki (1760-1806) scrisse Kyuryokuhoron (Saggio sulla legge gravitazionale) basandosi su un testo olandese. Nonostante i timori delle autorità politiche giapponesi, gli studi sul sapere occidentale prosperarono. Il riconoscimento del valore del sapere occidentale da parte degli studiosi giapponesi pose il problema di riconsiderare quanto già si era appreso dalla Cina e dall’India. I giapponesi assunsero un atteggiamento molto pratico. Invece di rigettare l’una o l’altra, considerarono la saggezza orientale e la scienza occidentale in base all’utilità concreta che potevano avere nei casi specifici. E questo atteggiamento fu tenuto anche nei confronti della filosofia. Ciò diede vita alla prima e unica filosofia capace di sintetizzare il pensiero orientale e occidentale. L’incontro con la scienza occidentale alla metà del XVI secolo non significò soltanto l’acquisizione delle conoscenze tecniche. I missionari gesuiti portarono con sé anche le opere di Aristotele, Sant’Agostino e Tommaso d’Aquino. Il desiderio di confrontarsi con la filosofia europea era vivo negli studiosi nipponici. Choei Takano (1804-1850) aveva fornito nei suoi scritti una carrellata del pensiero filosofico da Talete a Kant. Fu proprio Takano a suggerire la prima traduzione della parola occidentale “filosofia” (dal greco philosophia). Era sua intenzione rendere il significato di un sapere generale e fondamentale. Perciò coniò il termine gakushi, traducibile all’incirca come conoscenza, sapienza, insegnamento. Ma nel 1874 si preferì adottare ufficialmente la parola tetsugaku inventata dal filosofo Amane Nishi (1829-1897). Il nuovo termine era composto da due caratteri: tetsu (saggezza) e gaku (scienza). I filosofi giapponesi intendevano la filosofia europea come una scienza che tramite la guida della ragione (ri) rendeva l’uomo capace di discriminare ogni conoscenza acquisita. Così come espresso dalla frase dori ni akaruku (diventare chiaro tramite la ragione). Come abbiamo mostrato, la filosofia orientale e la filosofia occidentale non sono necessariamente in opposizione. Molti autori europei hanno sviluppato la riflessione intorno alla realtà considerata come incessante cambiamento. I filosofi giapponesi hanno recepito ciò, e assunto gli studi di questi autori all’interno dei loro sistemi filosofici. Nel XX secolo la filosofia giapponese si concentrò sull’analisi delle opere di Hegel, Husserl e Heidegger, avvertiti come più consoni. Sulla spinta della dialettica hegeliana, molti filosofi giapponesi cominciarono ad elaborare una logica orientale in termini moderni. Kiyoshi Miki (1897-1945) scrisse Kosoryoku no ronri (La logica del concepimento del pensiero) in cui analizzava lo sviluppo delle idee nel mondo storico, e dunque la diversità propria di ogni civiltà. Kitaro Nishida (1870-1945) fu l’autore più prolifico e deciso nel sostenere l’esistenza di una logica giapponese. Riconsiderando la critica di Hegel al principio di non-contraddizione, Nishida cercò di individuare una logica dove la contraddizione è un’identità (mujunteki doitsu) costitutiva della realtà. Egli chiamò questa logica come logica del luogo (basho no ronri). Hajime Tanabe (1885-1962) elaborò una logica della specie (shu no ronri) e nell’opera Kagaku gairon (Introduzione alla filosofia della scienza) sostenne la peculiarità del pensiero giapponese. Risaku Mutai (1890-1974) in Basho no ronrigaku (Scienza della logica del luogo) riprese e sviluppò il lavoro di Kitaro Nishida, mostrandone l’ampiezza e le applicazioni che ne derivavano. Egli, come altri filosofi, critica l’opinione che la logica occidentale rappresenti la forma più corretta del pensiero, piuttosto la ritiene una costruzione congeniale a certe esigenze delle società occidentali. Tetsuro Watsuji (1889-1960) fu un sostenitore del nihonjinron (specificità della cultura giapponese) e nell’opera Fudo (Clima) cercò di evidenziare l’influenza dell’ambiente sulla civiltà. Satomi Takahashi (1886-1964) riconobbe diversi sistemi dialettici e il pluralismo delle logiche, e perciò ne tentò una sintesi nell’opera Ho benshoho (La dialettica onnicomprensiva). Lo sforzo dei filosofi giapponesi era evidentemente indirizzato a sviluppare una filosofia moderna che recuperasse i validi insegnamenti della tradizione orientale, consolidando le convergenze con la filosofia europea.
Recentemente lo studioso giapponese Daisaburo Hashizume nel saggio Bukkyo no gensetsu senryaku (La strategia verbale del buddhismo),  ha evidenziato la presenza di un filone delle tematiche del pensiero giapponese anche nella filosofia di Ludwig Wittgenstein. Secondo Hashizume, la filosofia del linguaggio di Wittgenstein sarebbe innanzitutto una critica alla logica vero-funzionale, e in secondo luogo, una alternativa al sistema concettuale occidentale fondato su una dialettica discorsiva e determinista, ma astratta. Non è del tutto infondato considerare come Wittgenstein abbia presto raggiunto, attraverso l’introduzione delle tavole di verità, i massimi sviluppi della logica vero-funzionale. E notare, soprattutto, quanto ne sia rimasto insoddisfatto, al punto di cambiare completamente l’approccio ai problemi filosofici e linguistici. Hashizume passa ad analizzare le strategie del buddhismo per il raggiungimento del satori. Egli paragona il gioco linguistico (Sprachspiel) di Wittgenstein alle tecniche del buddhismo per raggiungere lo stato di illuminazione. Il satori presenta gli stessi problemi del sistema filosofico basato sul gioco linguistico. Ad esempio, il paradosso della percezione del dolore. Wittgenstein aveva visto in frasi come io provo dolore ed egli prova dolore, una diversità dovuta a una ricaduta fenomenologica. Provare dolore è un’esperienza singolare e la sua espressione verbale (io provo dolore) è differente dall’espressione verbale del dolore altrui che non conosciamo (egli prova dolore). Resta quindi un elemento indiscernibile che la grammatica non rivela pienamente. Hashizume individua nello stato di satori una analogia. Noi non conosciamo cosa sia il satori. Per sapere che cos’è dobbiamo raggiungerlo. Ma nel momento in cui l’abbiamo raggiunto, come facciamo a sapere che è davvero il satori? Questo problema nasce da una trappola linguistica. Fondando la conoscenza esclusivamente su una base linguistica, perdiamo la maggior parte delle facoltà che ci permettono di agire sulla realtà. Per risolvere questa difficoltà, riconoscendo l’imprescindibile concretezza del linguaggio immerso nella realtà, Wittgenstein introduce il concetto di seguire una regola. Hashizume riconosce nel “seguire una regola” una prassi simile alla tecnica del Buddhismo. Gli orientalisti hanno ben presente la nozione di do, seguire una via, e come venga realizzato. Il maestro indica, non spiega cosa fare. Egli mostra una procedura, l’allievo la ripete. Inconsapevole di tale tradizione, anche Wittgeinstein però ne applicò il metodo. Le sue lezioni erano molto simili a sedute in cui gli allievi vengono interrogati attraverso l’uso di un koan (quesito). Che Wittgenstein praticasse tale tecnica ci è testimoniato dalle sue stesse opere che restano enigmatiche se non si interpreta correttamente il modo d'operare dell'autore. Ma vediamo da vicino questi esempi di koan di Wittgenstein.
 "Potrebbe una macchina pensare?" (Ricerche filosofiche, Par.359)
 "La sedia pensa tra sé e sé: dove? In una delle sue parti? O fuori dal corpo?" (Ricerche filosofiche, Par.360)
 "Ho intenzione di partire domani. Quando hai l'intenzione? Continuamente o a intermittenza?" (Zettel, Par.46)
 "Considera il comando: Ridi sinceramente a questa battuta di spirito!" (Zettel, Par.51)
 "Che cosa vuol dire: la verità di una proposizione è certa?" (Della certezza, Par.193)
 "Dunque, se dubito, o non sono sicuro, che questa sia la mia mano, perché allora non devo anche dubitare del significato di queste parole?"  (Della certezza, Par.456)
Nessuno di questi quesiti può avere una risposta precisa. Al contrario di ciò che accade per le domande della consueta tradizione filosofica occidentale. Come i koan, la risposta è al di fuori dei concetti inquadrati dalla domanda. Wittgenstein ci mostra come l'imbarazzo o il paradosso dei suoi quesiti nascano dalla mancanza di chiarezza del linguaggio e gli inganni provengano da ciò. Per comprendere le sue domande dobbiamo distruggere l'apparato di preconcetti che controllano la nostra mente. Ed è ciò che da secoli ci insegna la filosofia giapponese.


Bibliografia

Davidson, Donald, Verità e interpretazione, Il Mulino, Bologna, 1994.
Martorella, Cristiano, Affinità fra il buddhismo zen e la filosofia di Wittgenstein, in "Quaderni Asiatici", n.61, marzo 2003.
Nishida, Kitaro, La logica del luogo e la visione religiosa del mondo, L’Epos, Palermo, 2005.
Nishida, Kitaro, L’io e il tu, Unipress, Padova, 1997.
Nishida, Kitaro, Il corpo e la conoscenza, Cafoscarina, Venezia, 2001.
Nishitani, Keiji, La religione e il nulla, Città Nuova, Roma, 2004.
Putnam, Hilary, Rinnovare la filosofia, Garzanti, Milano, 1998.
Saviani, Carlo, L’Oriente di Heidegger, Il Melangolo, Genova, 1998.




Articolo tratto dalla rivista "Diogene Filosofare Oggi". Cfr. Cristiano Martorella, La Verità e il Luogo. Convergenze e divergenze fra la filosofia occidentale e giapponese, in "Diogene Filosofare Oggi", n.4, anno 2, giugno-agosto 2006, pp.14-19.

La chef Kono Fumiko

La chef giapponese Kono Fumiko è stata intervistata dalla rivista "D La Repubblica delle Donne" (5 dicembre 2009, n.674, anno XIV, p.130). La cucina di Kono Fumiko è una fusione della cucina francese e giapponese. Kono Fumiko si è diplomata in francese alla Sorbona, e attualmente tiene corsi di cucina all'Ecole de cuisine di Alain Ducasse. Ha pubblicato in Francia il libro di ricette intitolato La cuisine de Fumiko.
Cristiano Martorella

Dokusho lettura e tecnologia

Segnalo, per chi non avesse avuto ancora l'occasione di leggerlo, il mio articolo Dokusho sul tema dei rapporti fra lettura e tecnologia pubblicato dalla rivista "LG Argomenti".

Cfr. Cristiano Martorella, Dokusho. La lettura fra scienza e tecnologia, in "LG Argomenti", n.1, anno XL, gennaio-marzo 2004, pp.20-23.

Dokusho
La lettura fra scienza e tecnologia
di Cristiano Martorella

Dokusho significa lettura in giapponese, e indica l’attività dilettevole del leggere. Quando si tratta questo argomento emerge sempre la connessione fra la lettura e l’ideologia (spesso presentata come pedagogia), così in Giappone come in Italia (1). A Giorgio Bini va il merito di aver sollevato in proposito alcuni dubbi cruciali. Egli ha esposto una domanda tanto semplice quanto ardua nella risposta. Se la tecnologia multimediale ha cambiato il modo di fruire la narrativa, la letteratura giovanile deve adeguarsi con diversi moduli, stili, contenuti e linguaggi? In tal senso, sono cambiate anche le facoltà intellettive dei giovani?
Non si può fornire una risposta se prima non si riconosce l’influenza ideologica sulla letteratura giovanile. Questa influenza è stata opportunamente analizzata per quanto riguarda il passato, mentre è ignorata per il presente. Perché oggi fingiamo che la letteratura si sia liberata da questa influenza quando è vero il contrario? Purtroppo quando si è immersi nell’ideologia è più difficile vederla. L’assetto sociale dei nostri tempi è riconoscibile nell’attitudine economicista della letteratura contemporanea. Il valore di un libro è stabilito dai dati commerciali. Così il libro di un calciatore diventa un best-seller che oscura le opere degli autori contemporanei. La tanto proclamata e vantata liberazione della letteratura dalla pedagogia non è altro che lo spostamento verso un uso puramente commerciale del libro. In passato il libro era il veicolo dell’ideologia, ora è svincolato dai contenuti per rispondere appunto alle esigenze della nuova ideologia. Questa nuova ideologia che chiameremo emporiocrazia, ossia governo del mercato, considera la letteratura un bene di consumo e l’inserisce nel sistema economico che essa stessa sostiene. Insomma, si tratta di un’ideologia più subdola perché priva di contenuti e valori, è l’ideologia del consumismo. Riconosciuto ciò bisogna andare oltre e ottenere una visione complessiva che ci permetta di uscire da questa interpretazione puramente economicista per individuare le prospettive alternative. In tal senso l’esperienza giapponese è molto utile per diversi motivi. Innanzitutto il Giappone è il paese dove la tecnologia è più avanzata, con importanti ripercussioni sia positive sia negative. In secondo luogo, le problematiche riguardanti la letteratura e la tecnica hanno avuto approcci e soluzioni originali in questo paese più avanzato, decisamente ancora sconosciute in Occidente. Soprattutto la questione della tecnica investe il fenomeno degli otaku e della cultura giovanile giapponese (wakamono bunka).
Fin dagli anni ’80 è apparsa prima come una problematica, poi come una risorsa, la cultura giovanile giapponese. Inizialmente il fenomeno era inquadrato nelle categorie della sociologia funzionalista di Robert King Merton, attribuendo il carattere di devianza a ciò che era invece un’autentica innovazione coinvolgente non soltanto i costumi, ma anche i mezzi di produzione e i consumi. Con il termine spregiativo di otaku si intendeva qualcuno che si chiudeva in casa segregandosi per seguire una passione o un hobby in modo fanatico. Questo passatempo (shumi) poteva essere la lettura di fumetti, il modellismo, il collezionismo, etc. Dopo circa un decennio i sociologi si accorsero che il fenomeno non era soltanto passivo e non aveva aspetti unicamente negativi. Gli otaku avevano grande capacità di aggregazione e socialità favorite dalla loro passione, inoltre erano creatori attivi di fanzine (dojinshi), disegnavano, scrivevano, organizzavano raduni. Insomma, erano tutto tranne che asociali e indolenti come erano stati inizialmente descritti. Intanto la sociologia cambiava indirizzo influenzata dal metodo dell’interazionismo simbolico di George Herbert Mead. Così le vecchie analisi erano buttate alle ortiche. In Giappone cominciarono a fiorire studi e considerazioni ben diversi sulla cultura giovanile. Ormai Tokyo era divenuta un laboratorio vivente, specialmente nei quartieri di Harajuku, Shibuya e Akihabara, di questa nuova cultura. La tecnica svolgeva un ruolo importantissimo in questa trasformazione. Le possibilità offerte agli otaku provenivano dal sistema di produzione snella inventato dai manager giapponesi. Con un computer, una stampante, una fotocopiatrice, si poteva realizzare una piccola tipografia casalinga. Questa capacità nasceva negli anni ’80 grazie alla rivoluzione informatica. La comunicazione cambiava tramite internet e telefonia mobile. La televisione era scavalcata e resa obsoleta dal lettore DVD e dal file multimediale. In Giappone ciò fa parte della storia del passato recente, in Italia questo sarà il futuro prossimo.

Qual è dunque l’insegnamento che ci proviene dall’esperienza giapponese? L’aspetto principale che va rimarcato è che i cambiamenti delle tecniche non possono agire da soli sul cambiamento della società, piuttosto è vero il contrario. La richiesta di certe tecniche e il loro successo è dovuto a esigenze sociali. La televisione, così come è ancora concepita, è destinata all’obsolescenza poiché la società del futuro non può tollerare un uso così passivo di un mezzo di comunicazione. Attualmente c’è il tentativo di rendere la televisione interattiva, ma è soltanto un trucco che non inganna le nuove generazioni già avvezze alla navigazione in internet. L’altro insegnamento dell’esperienza giapponese riguarda la cultura e il linguaggio. Gli otaku hanno sfruttato le risorse tecnologiche ripiegandosi sulla cultura autoctona di matrice pagana e buddhista. Questo deve far sospettare che una spinta forte verso l’uso della tecnologia comporta come compensazione un recupero della cultura antica depositaria dell’equilibrio delle pulsioni irrazionali. La risposta sociale alla razionalità della tecnica è una virulenta irrazionalità controllabile soltanto da nuovi schemi simbolici e semiotici. Come diceva Martin Heidegger, citando Hölderlin, dov’è il pericolo cresce anche ciò che salva. Perciò Giorgio Bini può stare davvero tranquillo sulla sorte della letteratura. Il futuro non vedrà affatto nuovi paradigmi logici, piuttosto risorgerà la saggezza dell’antichità capace di dare senso alla realtà irrazionale dell’essere. Non sarà la tecnica a creare un nuovo essere. Non esiste un essere digitale autonomo e separato dall’essere. La tecnica è un sostegno (Gestell), capacità di creare una realtà artificiale piegando la natura alla volontà dell’uomo. Però ciò che è solo tecnica non giunge mai all’essenza della tecnica. La tecnica ha una sua essenza che prescinde dall’uomo. Così come l’essenza dell’uomo non è la sua opera, così l’essenza della tecnica non è opera dell’uomo. La tecnica si separa e vive di vita propria indipendente dall’uomo perché l’essenza della tecnica è l’essere stesso. Non un nuovo essere, ma l’essere. Insomma, l’uomo non crea la realtà con le sue macchine, egli interagisce e le macchine sono protagoniste di un mondo complesso dove l’idea di controllo e creatore si disfa. Il pericolo è che l’essenza dell’uomo passi la mano all’essenza della tecnica. Dunque l’errore sarebbe quello di vedere un problema tecnico lì dove il problema è umano. I mali dell’uomo non vanno imputati alla tecnica, ma a un rapporto instabile causato dall’uomo moderno incapace di ritrovare se stesso. Un uomo che spesso è impegnato a cercare se stesso nelle macchine che ha creato senza ritrovarsi. L’essenza dell’uomo non è la sua opera. Purtroppo questo equivoco è la causa dell’incapacità di porre attenzione all’essenza della tecnica, e della confusione fra tecnica ed essenza, fra uso e vita. La svolta avviene quando si guarda dentro ciò che è, scoprendo che chi guarda ha lo sguardo rivolto verso se stesso. La ricerca della tecnica era ricerca dell’uomo. Dimenticato l’uomo, la tecnica diviene incapace di vedere. La letteratura giovanile sarà veramente emancipata quando vedrà il pericolo della tecnica come salvezza dell’uomo, perché dov’è il pericolo cresce ciò che salva. L’idea che la lettura sia un bene da salvaguardare è illusoria. Ciò che va tutelato è il soggetto pensante. Tutte le parole spese in Italia a favore della promozione della lettura si sono rivelate vacue e soprattutto inutili. Non poteva essere altrimenti. Gli studiosi giapponesi ci insegnano che la lettura è un’attività spontanea che non può essere pianificata dalla didattica. Ogni attività rivolta alla formalizzazione e razionalizzazione della lettura si distingue per essere controproducente e dannosa. Per questo motivo le biblioteche familiari (bunko) che hanno un approccio informale ed emotivo hanno tanto successo in Giappone. La lettura ha bisogno di essere liberata dalle ricette dei sedicenti esperti, dalle formule della lettura per piacere, dalla confusione del sensualismo pasticcione. I libri si leggono, se si leggono, perché interessano. Tutto il resto è vaneggiamento. L’interesse è un processo del soggetto su cui non si può agire tramite il libro che è soltanto un mezzo o meglio un medium. Non esistono ricette per scrivere bei libri. Non esiste un esperto della letteratura capace di convincere a leggere. Quando avremo compreso ciò potremo guardare alla questione della lettura come ciò che realmente è, un sottoproblema della sociologia che può essere trattato seriamente solo in un ambito più ampio.
La pedagogia e la critica giapponese hanno capito ciò da un bel po’ di tempo. Quando si emanciperà anche la critica letteraria italiana?

Note

1. Per la problematica in Giappone si consulti la rivista "Nihon jidobungaku" dedicata alla letteratura per l'infanzia.

Bibliografia

Drake, William, The New Information Infrastructure, Twentieth Century Fund Press, New York, 1995.
Drucker, Peter, Post-Capitalist Society, Harper Collins, New York, 1993.
Eagleton, Terry, Le illusioni del postmodernismo, Editori Riuniti, Roma, 1998.
Ferretti, Gian Carlo, Il mercato delle lettere, Einaudi, Torino, 1979.
Fukuyama, Francis, La Grande Distruzione. La natura umana e la ricostruzione di un nuovo ordine sociale, Baldini & Castoldi, Milano, 1999.
Hardt, Michael e Negri, Antonio, Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, Rizzoli, Milano, 2001.
Martorella, Cristiano, Affinità fra il buddhismo zen e la filosofia di Wittgenstein, in “Quaderni Asiatici”, n.61, marzo 2003.
Martorella, Cristiano, Wakamono. I paradossi della cultura giovanile giapponese, in “LG Argomenti”, n.1, anno XXXIX, gennaio-marzo 2003.
Martorella, Cristiano, Il concetto giapponese di economia: le implicazioni sociologiche e metodologiche, Cartotecnica Veneziana Editrice, Venezia, 2002.
Martorella, Cristiano, La rivoluzione invisibile, in “Sushi”, n.3, ottobre 1996.
Masuda, Yoneji, The Information Society as Post-Industrial Society, World Future Society, Washington, 1981.
Morikawa, Kaichiro, Learning from Akihabara. The Birth of a Personapolis, Gentosha, Tokyo, 2003.
Rifkin, Jeremy, La fine del lavoro, Arnoldo Mondadori, Milano, 2002.

Hector Garcia un geek in Giappone

Segnalo la pubblicazione del libro di Héctor García sulla cultura giapponese contemporanea.

Héctor García, Un geek in Giappone, Panini Comics, Modena, 2009.


Il libro ha un approccio divulgativo molto semplice, partendo da alcune caratteristiche ben note della cultura giapponese, per giungere alle mode della cultura pop.
Riccamente illustrato con foto a colori, è corredato anche di schede che spiegano gli aspetti linguistici e approfondiscono i termini utilizzati.
Cristiano Martorella


Blog di Cristiano Martorella sulla cultura pop giapponese

http://culturapopgiapponese.myblog.it

Midway 1942

Segnalo la vendita in edicola di un volume dedicato alla battaglia di Midway che fu il punto di svolta nella Guerra del Pacifico combattuta dai giapponesi.

Mark Healy, Midway, giugno 1942, La prima vittoria americana. Le portaerei contrattaccano, Osprey Publishing - RBA Italia, Milano, 2009, 96 pagine, 9,99 euro.


La flotta giapponese, comandata dall'ammiraglio Nagumo, subì una grave sconfitta con la perdita delle quattro portaerei d'attacco, compresa la gloriosa prima divisione portaerei (Akagi e Kaga). Il piano strategico di Yamamoto, chiamato Operazione MI, si rivelò un totale fallimento a causa dell'eccessiva sottovalutazione delle capacità delle forze avversarie. Oltre agli errori strategici, con la separazione delle forze impegnate anche nell'invasione delle isole Aleutine, ci furono anche gravi lacune logistiche. Infatti le portarei giapponesi furono impiegate nel duplice scopo di forza d'attacco contro le isole Midway e di flotta navale che doveva impegnare e distruggere le navi americane. Così dominò l'incertezza sulle operazioni, e più volte Nagumo fu costretto a ordinare il cambio dell'armamento degli aerei, bombe o siluri, perdendo tempo prezioso per il contrattacco.
Cristiano Martorella

martedì 15 dicembre 2009

Il buddhismo e i miracoli

I miracoli e il buddhismo
di Cristiano Martorella

Il buddhismo non è una pratica religiosa che si realizza attraverso opinabili miracoli e risibili rituali magici. Anche se nella tradizione buddhista sono frequenti, specialmente nelle scuole di ispirazione Vajrayana (Veicolo del diamante), molti rituali esoterici, essi sono aspetti di un discorso più ampio che si inserisce nelle pratiche delle culture orientali. I seguaci del buddhismo, viceversa, sono invitati dai loro maestri a non farsi incantare da questi aspetti superficiali e non fondare la propria fede in discutibili poteri sovrannaturali, nella magia e nell'aspettativa in miracoli e prodigi. Il buddhista deve essere pienamente consapevole degli scopi e dei metodi della propria pratica religiosa, rifiutando ogni tipo di superstizione e credenza popolare che trasforma la fede in una stanca abitudine e in ripetitivi rituali.
Daisaku Ikeda, presidente della Soka Gakkai, è molto esplicito in proposito. Ecco, qui di seguito, come spiega la sua posizione.

"Il segreto e i mistici poteri del Tathagata non sono altro che l'ottenimento della buddità, come afferma Nichiren negli Insegnamenti orali. I poteri sovrannaturali non indicano poteri trascendenti. Nel Gosho Recitare il daimoku del Sutra del Loto leggiamo: Non si deve giudicare la validità di una religione in base ai poteri sovrannaturali od occulti acquisiti dai suoi seguaci. Inoltre Shakyamuni, rispondendo a una domanda del re Ajatashatru sulla differenza fra il buddismo e il brahmanesimo, dice: L'insegnamento del Budda ammonisce a non praticare discutibili incantesimi come accendere fuochi né a predire il futuro. Non esiste un segreto e un mistico potere più grande di quello di guidare tutti gli esseri alla buddità, a uno stato di perfetta felicità e realizzazione." [Cfr. Daisaku Ikeda, I capitoli Hoben e Juryo. Lezioni sui capitoli II e XVI del Sutra del Loto, Esperia Edizioni, Milano, 2005, p.109]

Daisaku Ikeda, appoggiandosi all'autorità del monaco Nichiren, e all'insegnamento dello stesso Buddha storico Shakyamuni, ribadisce, senza alcun dubbio, che lo scopo del buddhismo non è praticare incantesimi né ottenere miracoli. Ma egli non è certo l'unico personaggio di spicco che lo dice. Il Dalai Lama Tenzin Gyatso esprime con altre parole lo stesso concetto.

"Lo ripeto, lo scopo della pratica buddhista non è di ottenere poteri miracolosi, ma di trasformare il nostro essere. [...] Si può anche assimilare al creatore dell'universo la divinità illusoria sulla quale si medita, e pensare che se si ha fede in essa ci accorderà dei poteri, una vita lunga, la ricchezza e chissà che altro ancora. In questo caso non si mira allo scopo principale della pratica, che è di dominare il proprio spirito e di liberarsi dei veleni mentali, attribuendo invece grande importanza a questioni marginali." [Cfr. Dalai Lama, I consigli del cuore, Arnoldo Mondadori, Milano, 2002, p.167-168 ]

Molte religioni fondano la propria fede sulla credenza nell'esistenza di una divinità sovrannaturale capace di intervenire con prodigi e miracoli per cambiare la nostra vita. Non è così per il buddhismo. La pratica buddhista non ha lo scopo di ottenere poteri miracolosi. La vita stessa è un miracolo in sé. Viceversa, credere nei miracoli significa negare il valore prodigioso della vita nel suo aspetto naturale, ricercando nel sovrannaturale ciò che non si apprezza della nostra vita quotidiana.

sabato 12 dicembre 2009

Brian Victoria e lo zen

In Occidente si ha una visione troppo irrealistica del buddhismo considerandolo come una religione trascendentale di monaci rinchiusi dentro inaccessibili eremi dediditi alla preghiera e alla non-violenza. Purtroppo la storia del buddhismo è ben diversa, e gli stessi monaci buddhisti sono stati i fondatori delle arti marziali orientali. Il precetto di non uccidere è stato ignorato e l'omicidio giustificato innumerevoli volte. Per chi volesse accostarsi a un libro che narra le controverse vicende del buddhismo in Giappone, segnalo il seguente testo di Brian Victoria:

Brian Victoria, Lo zen alla guerra, Edizioni Sensibili alle foglie, Dogliani, 2001.

Il volume affronta in maniera storiografica il tema della partecipazione dei buddhisti alla guerra imperialistica ed espansionistica del Giappone nel Novecento, dal 1895 al 1945. Il testo è ben documentato e può servire a fornire un quadro molto completo.

Cristiano Martorella

Beat zen

Articolo sul beat zen pubblicato dal sito Nipponico.com.

Beat zen
La filosofia giapponese fra pop e new age
di Cristiano Martorella

6 febbraio 2003. La definizione di beat zen fu formulata da Alan Watts nel tentativo di chiarire la sua posizione rispetto al successo popolare che lo zen stava avendo in America negli anni ’50. Alan Watts introduceva una distinzione fra beat zen e square zen utilizzando una terminologia già esistente e di estrema attualità (1). Con square zen si indica lo zen istituzionalizzato delle scuole Soto e Rinzai, mentre con beat zen si definisce lo zen popolare e volgarizzato, spesso collegato a movimenti artistici. Le parole square (quadrato) e beat (fallito) provengono dal linguaggio hipster degli anni ’50. Square, il conformista, si opponeva a beat, alla gioventù bruciata che viveva nelle strade e nelle comunità artistiche. Alan Watts non si schiera a favore di un genere di zen contro l’altro, e con saggezza mostra quanto sia sconveniente creare una simile contrapposizione poiché lo zen è meno formale di quanto si creda. La gerarchia e l’istituzionalizzazione è avvenuta soltanto dopo un processo storico che ha assorbito lo zen nella società.

"Nel corso dei secoli, comunque il processo di rifiuto dell’insegnamento e il rispondere alle domande con altre domande è diventato sempre più formale. Sono sorti dei templi e degli istituti dove viene impartito un vero e proprio insegnamento e questo a sua volta ha creato problemi di proprietà, amministrazione e disciplina costringendo il buddhismo zen ad assumere la forma di una gerarchia di tipo tradizionale. Nell’Estremo Oriente questo fenomeno è continuato fino a divenire parte del paesaggio e alcuni dei suoi inconvenienti sono annullati dal fatto che sembra essere del tutto naturale. Non vi è nulla di “esotico o speciale” in questo fenomeno. Anche le cose organizzate possono crescere con naturalezza. Ma a me sembra che trapiantare questo stile zen in Occidente sarebbe una cosa del tutto artificiale." (2)

Alan Watts non intende favorire un genere di zen a discapito di un altro. Addirittura arriva a dire che beat zen e square zen possono completarsi a vicenda per dare vita a una forma di zen pura e vivace. Comunque, se si può giungere al satori (illuminazione) seguendo ambedue le vie, Watts coglie l’occasione per far notare gli errori dei seguaci di entrambe le scuole. Gli studiosi formali dello zen hanno la tendenza ad attribuire un valore eccessivo alle idee e ai concetti, studiando rigorosamente i testi e dimenticando che essi sono soltanto dei mezzi. Addirittura assumono un atteggiamento snob che rifiuta la spontaneità e la creatività. Perfino Suzuki Daisetsu fu considerato nelle università americane come un semplice divulgatore, piuttosto che uno studioso serio e originale. Ciò avvenne perché si dava troppa importanza alla sistematicità e al rigore scientifico. L’altro errore è costituito dall’attrattiva che le religioni esotiche esercitano sugli occidentali. Spesso si tratta di un interesse nato dall’insoddisfazione per le religioni monoteiste, però è una curiosità che rimane a un livello superficiale e immaturo, piuttosto confuso, qualcosa che ricorda le tendenze mistiche del movimento new age. Alan Watts cerca di mettere in evidenza, e a nostro giudizio vi riesce, le motivazioni che spingono ad abbandonare le religioni monoteistiche nel mondo moderno.

"L’universo giudaico-cristiano è un universo in cui il bisogno morale, l’ansia di essere nel giusto abbraccia e penetra ogni cosa. Dio, l’Assoluto stesso, è il bene opposto al male e così essere immorali o sbagliare significa sentirsi un esiliato non solo dalla società umana ma anche dall’esistenza stessa, dalla radice e dalla base della vita. Sbagliare suscita quindi un’angoscia metafisica e un senso di colpa - uno stato di dannazione eterna - del tutto sproporzionato al crimine commesso. Questa colpa metafisica è così insopportabile che infine sfocia nel rifiuto di Dio e delle sue leggi, che è proprio quello che è successo al movimento del secolarismo, del materialismo e del naturalismo moderni. La moralità assoluta distrugge profondamente la stessa moralità, perché le sanzioni che invoca contro il male sono eccessive. Non ci si cura il mal di testa tagliandosela. Il fascino dello zen, come quello di altre forme di filosofie orientali, è dato dal fatto che questo rivela, dietro al regno incalzante del bene e del male, una vasta regione di se stessi per la quale non è necessario sentirsi in colpa o fare recriminazioni, dove infine l’io non è distinto da Dio." (3)

Alan Watts suggerisce qualcosa di molto acuto per evitare l’errore appena descritto.

"Ma l’occidentale che è attratto dallo zen e che è in grado di capirlo profondamente deve avere un attributo indispensabile: deve capire la propria cultura in modo così completo da non venir più influenzato inconsciamente dalle sue premesse." (4)

Questa affermazione è condivisibile, e aggiungiamo che costituisce una convalida a quanto abbiamo sostenuto riguardo al concetto di specificità giapponese (5). La specificità giapponese può essere compresa soltanto se conosciamo bene la cultura occidentale, perché specificità e universalità sono unicamente le due facce della stessa medaglia, la realizzazione concreta di storia e cultura. Comprendere il processo universale della storia permette di distinguere l’autentica specificità delle differenti culture, altrimenti si resta a un livello astratto. Alan Watts sposta questo concetto all’ambito individuale. Ed è corretto procedere così. Bildung (formazione) della persona e disciplina zen coincidono secondo un modo un po’ riduttivo ma efficace d’intendere il buddhismo. Eppure c’è qualcosa di molto più sottile e sconvolgente nella pratica zen. Sekida Katsuki lo spiega attraverso la lezione della filosofia di Edmund Husserl.

"Husserl dice che l’io come persona, come una cosa nel mondo va eliminato attraverso la riduzione fenomenologica. L’io come una cosa nel mondo è in effetti l’attività abituale della coscienza, che è gravata da un confuso pensiero illusorio. Quello che Husserl dice può essere riassunto nell’asserzione che se si arresta l’attività della coscienza abituale, anche il confuso pensiero illusorio nell’esperienza personale, psicologica, individuale, scomparirà, e apparirà al suo posto la pura coscienza. Se questa interpretazione è corretta, allora possiamo dire soltanto che questo è esattamente quello che cercano di fare gli studenti di zen, quando siedono sui loro cuscini." (6)

La ricerca della pratica zen risiede nel tentativo di liberare la coscienza dai suoi condizionamenti. Anche Alan Watts è chiaro su questo punto.

"Per ragioni piuttosto diverse i giapponesi tendono a trovarsi a disagio nei confronti di se stessi tanto quanto gli occidentali, visto che possiedono un senso del rispetto umano acuto quasi quanto il nostro più metafisico senso del peccato. Questo si verificava soprattutto nella classe più sensibile allo zen, quella dei samurai. Ruth Benedict […] aveva perfettamente ragione quando diceva che l’attrazione che la casta dei samurai provava per lo zen derivava dal potere che questa dottrina aveva di liberare da un’autocoscienza estremamente imbarazzante, dovuta al tipo di educazione impartita ai giovani. Di questa autocoscienza fa parte quell’obbligo che i giapponesi sentono di competere con se stessi, un obbligo che riduce ogni arte e sapere a una maratona di autodisciplina. Anche se l’attrazione esercitata dallo zen consiste nella possibilità che esso offre di liberarsi da questa autocoscienza, la versione giapponese dello zen combatteva il fuoco con il fuoco, superando “l’io che osserva se stesso” con il portarlo a un’intensità tale da farlo esplodere." (7)

Lo zen giapponese è dunque “il superamento del superamento”, la filosofia che permette di giungere all’assoluto tramite il particolare portato all’eccesso. Queste considerazioni ci permettono di analizzare il valore dello zen dal punto di vista delle scienze sociali. Nonostante i severi e corretti rimproveri rivolti da Franco Ferrarotti (8) al movimento new age, ci sembra che si possa fornire un’ulteriore analisi non del tutto negativa.
Secondo Gianni Vattimo il pensiero occidentale moderno è superamento e fondazione (9). Queste due istanze si troverebbero nella logica dello sviluppo che sarebbe stata abbandonata dalla postmodernità. Le caratteristiche della postmodernità sarebbero la desecolarizzazione, la fine delle grandi narrazioni e la crisi dell’idea di progresso. La desecolarizzazione coincide con l’abbandono del pensiero positivista e il ritorno alle credenze spirituali, come appunto la new age. Eppure non corrisponde all’esperienza di queste religioni la rinuncia all’idea di superamento e progresso, anzi subisce un’accelerazione. L’influenza dello zen sposta il superamento al “superamento del superamento”. Una contraddizione soltanto apparente: il superamento del superamento è esso stesso superamento. Poiché lo zen non elimina il soggetto ma lo riunifica all’universo, eliminandolo soltanto come cosa isolata nel mondo, l’interpretazione qui presentata della postmodernità non è corretta. L’idea di superamento non è eliminata. Gianni Vattimo rimane ancora imprigionato nella logica occidentale che concepisce il superamento come eliminazione, una logica che Georg Hegel aveva indicato come fallace e aveva sostituito con la fenomenologia dello spirito.

Dunque il concetto di postmodernità è fuorviante per capire new age, cultura pop e beat zen. New age e beat zen non contrappongono modernità e antichità, piuttosto operano una sintesi. La contaminazione di moderno e antico non deve scandalizzare perché il criterio dello zen non pone al centro del sapere un dogma, al contrario apre il mondo alle infinite possibilità dell’esistenza. Se il movimento new age è criticabile per i molti difetti che lo caratterizzano, ciò non deve escludere che possa avere qualche influenza vantaggiosa, ad esempio l’avvicinamento, anche superficiale, alla filosofia orientale. Condannare la cultura popolare contemporanea è un comportamento snob tipico degli intellettuali che si atteggiano in modo saccente, ma anche esaltare la cultura pop in contrapposizione al passato o ad altre forme culturali è un comportamento esasperato e ingiustificato. Passato, presente e futuro non sono mai contrapposti nella cultura che essendo viva è capace di evolversi continuamente superando qualsiasi dicotomia. Perciò gli scritti di Alan Watts su beat zen e square zen sono un esempio di equilibrio e buon senso da seguire. C’è poi da sottolineare il fatto che la religione non è soltanto una questione fra dotti, ma riguarda una moltitudine di persone. Escludere l’aspetto popolare della religione significa eliminare il senso profondo della religione: creare un legame fra i membri di una comunità. L’etimologia della parola religione proviene dal latino relegere (raccogliere).

Note

1. Alan Watts discusse l’argomento del beat zen in alcuni saggi, e in particolare in Beat Zen, Square Zen e Zen pubblicato su “The Chicago Review” (estate 1958). Questi interventi sono stati raccolti in volume e tradotti in italiano: Watts, Alan, Beat Zen & altri saggi, traduzione di Piero Verni, Arcana Editrice, Milano, 1973.
2. Cfr. Watts, Alan, Beat Zen & altri saggi, nuova edizione, traduzione di Piero Verni, Aries/Arcana Editrice, Milano, 1996, p.61.
3. Ibidem, p.68.
4. Ibidem, p.68.
5. Cristiano Martorella, Il concetto giapponese di economia, Relazione al XXV convegno di studi sul Giappone, Venezia, 6 ottobre 2001.
6. Cfr. Sekida, Katsuki, La pratica dello zen. Metodi e filosofia, Astrolabio, Roma, 1976, p.170. Per il riferimento alla riduzione fenomenologica si consulti: Husserl, Edmund, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, traduzione di Enrico Filippini e Giulio Alliney, Einaudi, Torino, 1965.
7. Cfr. Watts, Alan, Beat Zen & altri saggi, nuova edizione, Aries/Arcana Editrice, Milano, 1996, p.63.
8. Ferrarotti, Franco, La verità? È altrove. All’insegna della new age, Donzelli Editore, Roma, 1999.
9. Cfr. Vattimo, Gianni, La fine della modernità, Garzanti, Milano, 1985, pp.10-11.

Bibliografia

Alteriani, Fulvio, Zen. Filosofia, arte della vita, pratica quotidiana, Giovanni De Vecchi Editore, Milano, 1996.
Hoover, Thomas, La cultura zen, Arnoldo Mondadori, Milano, 1981.
Izutsu, Toshihiko, La filosofia del Buddhismo Zen, Astrolabio-Ubaldini, Roma, 1984.
Martorella, Cristiano, Gioco linguistico e satori, Relazione del corso di Filosofia del Linguaggio, Facoltà di Lettere e Filosofia, Università di Genova, 1999.
Martorella, Cristiano, Quando Uzume salvò il mondo con una risata, Relazione del corso di Linguistica, Facoltà di Lettere e Filosofia, Università di Genova, 1999.
Puech, Henri-Charles, Storia del Buddhismo, Laterza, Bari, 1984.
Suzuki, Daisetsu Teitaro, Manual of Zen Buddhism, Rider and Company, London, 1974.
Suzuki, Daisetsu Teitaro, Zen and Japanese Culture, Bollingen Series, New York, 1959.
Watts, Alan, La via dello Zen, Feltrinelli, Milano, 1960.
Watts, Alan, Beat Zen & altri saggi, Arcana Editrice, Milano, 1973.

venerdì 11 dicembre 2009

Nyoze

Articolo sui dieci fattori secondo il Sutra del Loto pubblicato dal sito Nipponico.com.

Nyoze. I dieci fattori secondo il Sutra del Loto
di Cristiano Martorella

19 agosto 2006. Il Sutra del Loto, in giapponese Hokkekyo (1), è fra i sutra buddhisti più popolari e di maggiore influenza. Secondo molti studiosi, fu scritto intorno al I secolo d.C. per rispondere alle esigenze del Mahayana (Scuola del Grande Veicolo) che intendeva diffondere un buddhismo più vicino alle persone senza privazioni ascetiche. In questo senso il Sutra del Loto si accosta ad altre scritture simili come il Sutra della Saggezza e il Sutra della Ghirlanda.
Fra gli insegnamenti esposti nel Sutra del Loto, ha una particolare importanza e peculiarità la dottrina dei dieci fattori (ju nyoze). I dieci fattori sono le modalità di comprensione della realtà, ovvero come la mente umana percepisce se stessa e il mondo che la circonda. Il termine “fattore” traduce la parola giapponese nyoze (in sanscrito tathata, in cinese ju-shih) che significa “la cosa così com’è”. Questa dottrina insegna che le cose che conosciamo e percepiamo immediatamente senza ulteriori elaborazioni della mente (ossia senza giudizio, opinione, ecc.) sono riconducibili a questo schema di fattori (nyoze).

1) So. Aspetto ovvero la forma esteriore delle cose.

2) Sho. Natura, o carattere, è la qualità delle cose.

3) Tai. Entità, ovvero l’ente, il corpo che riunisce forma e qualità.

4) Riki. Potere, ovvero la forza delle cose.

5) Sa. Azione, è l’attività che si manifesta.

6) In. Causa interna. La causa del cambiamento interno.

7) En. Causa esterna o relazione. La causa o condizione esterna.

8) Ka. Effetto latente o effetto interno. Questo è l’effetto delle cose che avviene all’interno di esse.

9) Ho. Retribuzione o effetto esterno. Questo è l’effetto che si manifesta visibilmente.

10) Hon makkukyo to. Coerenza dall’inizio alla fine. Ogni cosa ha un senso senza lacune e interruzioni.

La conoscenza dei dieci fattori permette di distinguere chiaramente il funzionamento della mente e percorrere il cammino di liberazione dalle illusioni.
Importanti commentatori del Sutra del Loto sono stati i monaci giapponesi Dogen (1200-1253) e Nichiren (1222-1282). In particolare, Nichiren spiega i dieci fattori all’interno della dottrina di shoho jisso (il vero aspetto di tutti i fenomeni) e della teoria di ichinen sanzen (tremila regni in un istante).
Secondo Nichiren (2) tutti gli esseri viventi, l’ambiente in cui vivono e i fenomeni dell’universo sono manifestazione dell’ordine cosmico che è identificato con Buddha. Quindi in ogni cosa c’è Buddha, e ogni cosa si manifesta attraverso i dieci fattori. Inoltre in un singolo istante ci sarebbero tremila regni o mondi possibili realizzabili dalla combinazione di fattori e condizione spirituale. Questa è la spiegazione di Nichiren che riprende e sviluppa magistralmente gli studi del cinese T’ien-t’ai.
La teoria dei dieci fattori va comunque considerata correttamente all’interno della più ampia dottrina buddhista. I dieci fattori non sono elementi che costituiscono la realtà, ma al contrario sono gli strumenti dell’intelletto, la griglia o lo schema concettuale che filtra i fenomeni e li rende intelligibili per la mente. La vera e unica autentica realtà è Buddha (l’universo intero e la sua interdipendenza). Per quanto riguarda i fattori di causa ed effetto (in giapponese innen), è bene ricordare che secondo Buddha sono anch’essi illusori. La causa è il prodotto di una abitudine mentale (in sanscrito vasana). Questa comprensione della produzione delle cause è simile alla spiegazione fornita dal filosofo scozzese David Hume nel XVIII secolo. Hume usa i termini custom ed habit (abitudini, tendenze, usanze) per indicare una facoltà superiore che influenza la formazione delle idee. Se si accetta questa interpretazione, si capisce perché sia necessaria una illuminazione (in giapponese satori) e una emancipazione (gedatsu) che giunga fino al nirvana (nehan) perché si possa avere la comprensione della realtà dell’universo. Senza distacco e liberazione dalle tendenze e abitudini non è possibile vedere oltre le illusioni prodotte dalla mente. Eppure sono le stesse illusioni, che prese singolarmente ingannano e fuorviano, a realizzare viceversa se considerate contemporaneamente e complessivamente la realtà. La diversità non è costituita dalla mente di chi pensa, ma dal modo come la si usa. Buddha è colui che pensa e agisce come Buddha, perciò chiunque può esserlo. Così afferma il Sutra del Loto senza sbagliarsi. Questa dottrina è anche coerente con le teorie buddhiste precedenti, altrimenti non sarebbe comprensibile e concepibile l’avviamento della ruota della legge, ossia la predicazione e l’insegnamento di Buddha. Nel Mahaparinirvana sutra si afferma che tutto quello che ha forma esiste per effetto della mente (3). Il buddhismo autentico è perciò l’esercizio e la pratica della conoscenza e del controllo della mente. Buddha è colui che è pervenuto all’illuminazione ed ha raggiunto tale capacità. La differenza fra chi è prigioniero delle illusioni e chi è pervenuto all’illuminazione non consiste nell’eliminazione delle apparenze prodotte dallo schema dei dieci fattori, ma nella modalità di operare della mente. La mente di Buddha non si ferma a considerare un singolo aspetto, ma coglie contemporaneamente il pluralismo della realtà.

Note

1. In sanscrito è intitolato Saddharmapundarikasutra, letteralmente Sutra del Loto della Buona Legge. In giapponese è tradotto come Myohorengekyo, dove myo significa buona, meravigliosa, straordinaria, e ho indica la legge o dharma (insegnamento di Buddha). Renge è invece il fiore di loto, infine kyo significa sutra (testo buddhista). Myohorengekyo è abbreviato in giapponese con Hokkekyo, in italiano con Sutra del Loto. La più antica versione sembra redatta nel I secolo d.C., all’incirca tra il 40 e il 100 d.C., in un periodo in cui si sviluppava e prosperava la scuola Mahayana. La dottrina del Sutra del Loto è basata sulla ekayana (veicolo unico) che propaga l’insegnamento circa l’esistenza di Buddha in ogni individuo e l’accessibilità immediata e sicura alla buddhità in questo mondo.
2. Cfr. Nichiren, Gli scritti di Nichiren Daishonin, Vol. 4, Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai, Firenze, 2000, pp. 229-236.
3. Cfr. Buddha, Mahaparinirvana sutra, Edizioni I Dioscuri, Genova, 1990, pp. 48-50.

Bibliografia

Hume, David, Ricerca sull’intelletto umano, Laterza, Bari, 1996.
Ikeda, Daisaku, La saggezza del Sutra del Loto, Arnoldo Mondadori, Milano, 2005.
Ikeda, Daisaku, I capitoli Hoben e Juryo, Esperia Edizioni, Milano, 1999.
Martorella, Cristiano, La verità e il luogo, in “Diogene Filosofare Oggi”, n.4, anno II, giugno-agosto 2006.
Nichiren, Gli scritti di Nichiren Daishonin, Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai, Firenze, 2000.

Causa ed effetto nel buddhismo

Articolo sul concetto di causalità nel buddhismo pubblicato dal sito Nipponico.com.

Inga, la mistica della legge inesistente
Il rapporto causale secondo il buddhismo
di Cristiano Martorella

5 agosto 2007. Una credenza molto equivocata è sostenuta dalla maggioranza dei buddhisti riguardo al karma e il rapporto causa ed effetto (in giapponese inga to kekka). Si pensa, in maniera ingannevole, che ogni buona azione abbia una ricompensa e ogni malefatta riceva una punizione. Così si attribuisce alle disgrazie e sventure un rapporto con le azioni precedenti, non soltanto in questa vita ma anche nelle esistenze anteriori secondo la dottrina della metempsicosi. Questo sistema delle retribuzioni di benefici e punizioni viene chiamato genericamente karma, dal sanscrito karman che significa semplicemente azione. In realtà il Buddha storico, Shakyamuni, non ha mai attribuito un senso così meccanico e deterministico al karma, anzi ha sempre sostenuto il carattere ingannevole e illusorio del rapporto causale.
L'equivoco dei buddhisti ha conseguenze drammatiche e nefaste nella pratica. Infatti la credenza fallace che ogni azione sia ricompensata o punita porta ad una attesa spasmodica per qualcosa che non accadrà. Constatato che in questa vita ciò non avviene, i buddhisti si consolano e si ingannano sperando nell'esistenza successiva. Questo atteggiamento genera frustrazione e ansia, appunto ciò che Buddha voleva superare. Buddha aveva anche avvisato insistentemente i suoi seguaci dal pericolo costituito dalla pratica religiosa seguita in modo non corretto. La dottrina buddhista mal interpretata produce danno e dolore così come un serpente afferrato per la coda si rivolge contro chi lo tiene e lo morde (1).
Nonostante i tanti equivoci, molti maestri buddhisti indicano correttamente la spiegazione che Buddha ha fornito della causalità. Buddha non ammette una causalità in senso stretto. La causa esige un rapporto diretto con l'effetto. Ed è proprio questa dipendenza unilaterale che viene criticata da Buddha stesso. E' soltanto sotto condizioni molteplici, praticamente infinite, che qualcosa avviene. Ciò che appare, ogni fenomeno, non si origina da sé né da un altro sé, non si origina neppure a caso. In realtà non è prodotto ma si origina in interdipendenza. Non c'è sostanza che si trasforma da sé (produzione da sé). Non c'è produzione dal nulla di un dio o di un uomo (produzione da altro). Tali idee sono soltanto il prodotto di un pensiero antropocentrico che considera le cause al lavoro alla stregua di un ceramista che preso un pezzo di argilla lo trasforma in un vaso. Lo stesso rapporto stretto di dipendenza unilaterale tra causa ed effetto viene disciolto in una molteplicità di condizioni complesse.
Un altro equivoco fondamentale è costituito dall'affermazione della coincidenza di causa ed effetto. Generalmente i buddhisti interpretano la coincidenza di causa ed effetto come il potere miracoloso di Buddha nell'esaudire le preghiere e i desideri. Invece non è affatto così.
In realtà causa ed effetto sono coincidenti nella consapevolezza (2). Attraverso la consapevolezza la causa viene dissolta nell'effetto perché si comprende e osserva la non-sostanzialità del rapporto causale che è un fantasma della nostra mente (3). Non esiste una causa singola ma cause infinite quindi incommensurabili e non determinabili.

Note

1. L'esempio del serpente è dello stesso Buddha. La dottrina buddhista mal compresa è dannosa e nociva come il morso di un serpente che è afferrato senza attenzione. Afferrare male il serpente significa afferrare male la dottrina di Buddha, cioè non comprenderla affatto nel suo significato autentico. Cfr. Burlingame, Eugene Watson, Parabole buddhiste, Laterza, Bari, 1995, p. 128.
2. Cfr. Meazza, Luciana, Le filosofie buddhiste, Xenia Edizioni, Milano, 1998, p. 8.
3. Circa il principio di non-sostanzialità dei fenomeni si legga la dottrina del vuoto (ku). Cfr. Martorella, Cristiano, La verità e il luogo, in "Diogene Filosofare Oggi", n. 4, anno II, giugno-agosto 2006, p. 15.

Bibliografia

Burlingame, Eugene Watson, Parabole buddhiste, Laterza, Bari, 1995.
Gombrich, Richard, Theravada Buddhism, Routledge, London, 2005.
Ikeda, Daisaku, The Living Buddha, Weatherhill, New York, 1976.
Martorella, Cristiano, La verità e il luogo, in "Diogene Filosofare Oggi", n. 4, anno II, giugno-agosto 2006.
Meazza, Luciana, Le filosofie buddhiste, Xenia, Milano, 1998.
Pasqualotto, Giangiorgio, Il buddhismo, Bruno Mondadori, Milano, 2003.
Puech, Henri Charles, Storia del buddhismo, Arnoldo Mondadori, Milano, 2001.

Piano anticrisi di Fujii

Il Giappone vara un piano economico di 7200 miliardi di yen (55 miliardi di euro) per contrastare la crisi , equivalente all'1,5% del Pil. Il ministro delle Finanze Fujii Hirohisa considera pessime le condizioni dell'economia giapponese, e ha quindi convinto il governo a un intervento massiccio. A causa della crisi le entrate fiscali sono calate, causando purtroppo il superamento del debito rispetto al gettito.
Cristiano Martorella

Il ministro Fujii Hirohisa

Nel governo Hatoyama svolge un delicato incarico il ministro delle Finanze Fujii Hirohisa. Nato nel 1932, Fujii Hirohisa è stato un politico iscritto nel Partito Liberaldemocratico (Jiyuminshuto), poi nel Partito del Rinnovamento (Shinseito), e infine nel Partito Democratico (Minshuto), dove tuttora milita. Già ministro delle Finanze nel 1993-1994 nei governi Hosokawa e Hata, è ministro del governo Hatoyama dal settembre 2009. Prima di occuparsi di politica, Fujii era un funzionario di alto rango del ministero delle Finanze (Zaimusho), nell'ufficio del Bilancio. Fujii fa parte della corrente politica di Ozawa, ed è anche uno dei consiglieri stretti di Hatoyama Yukio.

Cristiano Martorella

domenica 6 dicembre 2009

Hipster e influenze zen

Articolo sul rapporto fra hipster e buddhismo zen pubblicato dal sito Nipponico.com.

Hipster e influenze zen
Le tendenze pop fra arte e religione
di Cristiano Martorella

24 febbraio 2003. Negli anni '50 e '60 del secolo scorso vi fu un crescente e vivace interesse per la religione orientale in Europa e America. Oltre all'apprezzamento crescente dell'induismo, manifestato anche dal complesso pop dei Beatles con un viaggio in India e la produzione di un disco da parte di George Harrison per gli Hare Krishna, vi fu l'interesse per un'altra corrente religiosa, ossia lo zen giapponese. Gli artefici del boom dello zen in Occidente furono Suzuki Daisetsu in America e Deshimaru Taisen in Europa, i quali con i loro viaggi, le conferenze e le pubblicazioni fornirono un'esposizione non superficiale dello zen. Questo interesse non si limitò agli ambienti accademici, ma esplose in particolare nelle tendenze artistiche del periodo. Non è affatto indebita l'associazione fra lo zen e le arti poiché era già presente nella matrice originaria giapponese (1). L'arte è anche una componente essenziale del movimento hipster (in giapponese hippusuta) che rifiuta la american way of life. Nati nelle comunità artistiche della North Beach di San Francisco e del Village di New York, gli hipster adottarono lo zen come giustificazione del loro disimpegno sociale. Infatti lo zen tradizionale criticava l'artificiosità della società esaltando il potere di liberazione dell'individuo attraverso l'autocoscienza. Gli hipster si ribellarono al sistema attraverso un totale disimpegno, non cercando di cambiare l'ordine sociale, ma escludendosi. Un atteggiamento radicale e perciò maggiormente ribelle.
Nell'arte zen gli hipster trovarono una legittimazione della loro concezione estetica della vita e della loro poetica spontanea e informale. Viceversa hipster, beatnik e hippy furono anche un laboratorio sperimentale a cui fecero riferimento le arti d'avanguardia dal 1947, periodo di nascita dell'action painting di Jackson Pollock, fino agli anni '60 e '70 e al consolidamento dell'esperienza dei gruppi Fluxus e Gutai. Sarebbe inesatto ritenere conclusa la parabola di queste correnti artistiche che sono ancora influenti. Piuttosto dagli anni '80 si è assistito a un riconoscimento dell'arte ribelle che ha coinciso con un inserimento nei musei e uno studio accademico, il quale snatura il carattere trasgressivo e contestatario. Questa osservazione vale anche per l'utilizzo dell'espressione subcultura che si rivela utile come etichetta sociologica, ma fuorviante per la comprensione dei reali fenomeni storici. Come si è detto in precedenza, dagli anni '80 in poi si è assistito a una normalizzazione dell'arte pop che divenne inglobata e divorata dal marketing delle aziende. L'industria della cultura nata con la società del consumo di massa non ha risparmiato le avanguardie, trasformando in merce anche i fenomeni di contestazione più radicali. Però non si può nemmeno affermare che le avanguardie siano le vittime inermi della omologazione. Infatti sono state le avanguardie, e i gruppi artistici sperimentali come gli hipster, a sostenere uno spirito egualitario e una concezione estetizzante della vita che condannava l'arte elitaria (2). Essi stessi hanno contribuito a formare una cultura di massa e a far uscire l'arte dai suoi confini tradizionali. Inoltre l'uso dei mass media distribuisce una visione generale estetizzata della vita. Piuttosto che informazione i mass media producono consenso e un sentire comune. Eppure questa concezione estetizzante era il proponimento degli hipster. E questo proposito non si è fermato qui.
La cultura di massa utilizza ampiamente l'arte pop nata spontaneamente e trasgressivamente. Perciò è fuorviante contrapporre cultura e subcultura. La cultura così come intesa nel XIX secolo non esiste più. Se dovessimo contrapporre cultura di massa e subcultura sarebbe una contraddizione in termini. Non può esistere una cultura di massa alla quale si esclude una cultura di gruppo. La cultura di massa arriva ovunque, specialmente nell'attuale mondo globalizzato, e ce ne accorgiamo studiando le subculture. Infatti esse si appoggiano sul potere pervasivo dei mass media (radio, televisione, internet, etc.). Se parliamo di subculture è esclusivamente per motivi di carattere accademico. Infatti è molto più comodo restringere un argomento di studio etichettandolo invece di stabilire i rapporti fra i fenomeni culturali più complessi. Al contrario la cultura pop nega una contrapposizione fra cultura alta e cultura di base, a favore di un'arte egualitaria come fatto estetico integrale. Chi continua a utilizzare la terminologia della subcultura si rivela decisamente conservatore riproponendo la distinzione fra cultura alta e bassa. Ed è evidente nello stesso termine subcultura (qualcosa che sta sotto).
Per questi motivi non è indebito studiare l'influenza che lo zen tradizionale ebbe sui movimenti popolari occidentali in tutte le sue forme. Alan Watts fu il primo occidentale a mettere in risalto quanto fosse insensato contrapporre lo zen tradizionale studiato nelle università allo zen eclettico e folcloristico degli hipster (3). Lo zen non è una disciplina formale anche se ha assunto degli aspetti istituzionali. La pratica dello zen è la ricerca del risveglio spirituale, la liberazione (gedatsu) dalle convenzioni che non permettono d'avere la conoscenza della natura autentica dell'universo. Come ciò accada è indifferente, e i maestri zen sono consapevoli di quanto l'illuminazione (satori) sia un fatto individuale. Un aspetto rimarcato dal detto "se incontri Buddha uccidilo", una affermazione che va intesa come il ridimensionamento dell'insegnamento tramite un maestro (4). Uccidere Buddha quando lo si incontra significa distruggere la speranza che qualcuno all'infuori di noi possa essere il nostro padrone. Uccidere il maestro era un'espressione già usata da Rinzai Gigen nel IX secolo.
Nel 1959 Umberto Eco riprese e commentò il saggio di Alan Watts criticando l'idea che potesse esserci un'autentica influenza dello zen nelle mode culturali occidentali (5). Secondo Eco lo zen era piuttosto una semplice giustificazione degli hipster al proprio individualismo anarchico. Autori come Jack Kerouac adotterebbero i modi esteriori di un conformismo orientale per legittimare attraverso lo zen le intemperanze e i vagabondaggi (6). La tesi di Umberto Eco non ci sembra però sufficiente per spiegare il successo dello zen in Occidente. Liquidare in questo modo la questione, affrontandone soltanto un aspetto, non è vantaggioso per lo studioso. Dal punto di vista delle scienze sociali l'interpretazione dei fenomeni deve avvenire senza un preventivo giudizio di merito. Comunque sia il comportamento umano, va prima considerato in relazione ai valori apportati, e in seguito giudicato. Inoltre qui permane una distinzione fra cultura alta e bassa che ha poca efficacia nella società dei consumi di massa. Come afferma Alessandro Baricco, anche Beethoven è un brand (7). Piuttosto ci sono molti aspetti dello zen che sfuggono ancora. Alan Watts mette in evidenza nel suo saggio già citato, come lo zen nipponico sia un movimento di reazione e contestazione all'eccessivo formalismo della società giapponese. Egli fa notare che l'istituzionalizzazione dello zen è stato un processo storico (8) che ha comportato una formalizzazione esteriore. Ma non è l'aspetto esteriore che ci può spiegare il valore dello zen. Gli hipster colgono nella tradizione orientale il rifiuto della vita mondana, e con ciò non si sbagliano.
In Oriente è sempre esistito uno spazio sociale autonomo riservato alla spiritualità. In India gli yogin che si rifacevano agli insegnamenti di Patanjali, sostenevano che il pensiero vincolasse a una concezione erronea della realtà da cui si poteva uscire attraverso esercizi fisici (asana) e psichici (dhyana). In Cina e Giappone i buddhisti riconobbero il carattere illusorio della realtà e suggerirono d'abbandonare l'attaccamento (upadana) alle cose. Buddha aveva accettato nell'ordine religioso (sangha) i membri di qualsiasi casta, minando i fondamenti della gerarchia sociale. Nell'Occidente cristiano, invece, la chiesa riconosceva ancora un forte potere ai ceti elevati. Il regnante riceveva l'incontestabile investitura da Dio (viceversa in Cina, ad esempio, il mandato celeste poteva essergli ritirato dalle divinità). Quando si avanzò la proposta di separare il potere religioso e politico avvenne appunto perché la sovrapposizione era divenuta inaccettabile portando a contrasti laceranti. Ma lo spazio sociale riservato alla religione era stato inevitabilmente occupato dalla politica. Anche in Oriente la politica ha invaso e si è appropriata della religione per fini utilitaristici. Però le religioni politeiste e panteiste sono meno vulnerabili alla strumentalizzazione politica. E lo zen è radicalmente avverso alle autorità, ai dogmi, alle consuetudini che irrigidiscono la natura umana.
Gli hipster ripresero lo zen e le sue forme artistiche perché esprimeva bene questo atteggiamento. Il modo in cui abbiano realizzato questa ripresa sarà pure questione della filologia e dell'accademia, però dal punto di vista sociologico è del tutto indifferente l'aspetto esteriore dell'agire sociale rispetto al risultato. La concezione estetica della vita non si è fermata ai movimenti hipster, ma ha saturato l'intera società contemporanea. Non stiamo trattando più quei fenomeni che appartengono a una subcultura, piuttosto siamo davanti a ciò che è costitutivo della cultura contemporanea. Per constatare ciò è sufficiente accendere un televisore e sintonizzarsi su MTV. Non è più lecito parlare di movimenti di contestazione quando essi rappresentano la maggioranza dei gusti e delle tendenze. Piuttosto si dovrebbe riflettere sul contrasto esistente fra il potere politico e i cittadini che esso dovrebbe rappresentare in quelle che sono considerate democrazie liberali. La religione è un'esigenza esistenziale che non può essere regolamentata dal potere amministrativo con criteri esclusivamente burocratici e formali. Bisogna garantire soprattutto uno spazio sociale per la religione e che sia tenuta in considerazione la sua capacità aggregativa.

Note

1. Hoover, Thomas, La cultura zen, Arnoldo Mondadori, Milano, 1981.
2. Sulla fine dell'arte convenzionale, cfr. Vattimo, Gianni, La fine della modernità, Garzanti, Milano, 1991, pp. 59-72.
3. Watts, Alan, Beat Zen & altri saggi, Aries/Arcana Editrice, Milano, 1996.
4. Kopp, Sheldon, Se incontri il Buddha per la strada uccidilo, Editrice Astrolabio, Roma, 1975.
5. Lo Zen e l'Occidente, pubblicato nel 1959, venne incluso in Opera aperta, ribadendo in nota l'atteggiamento critico e il dissenso dal trapianto dello zen come forma artistica in Occidente; cfr. Eco, Umberto, Opera aperta, Bompiani, Milano, 1962. Il saggio di Watts era apparso l'anno precedente; cfr. Watts, Alan, Beat Zen, Square Zen and Zen, in "Chicago Review", Summer 1958.
6. L'arte contemporanea è profondamente influenzata dallo zen e dalla sua estetica. Ricordiamo due casi emblematici: il compositore statunitense John Cage (1912-1992) e il pittore francese Yves Klein (1928-1962).
7. Cfr. Baricco, Alessandro, Next. Piccolo libro sulla globalizzazione e sul mondo che verrà, Feltrinelli, Milano, 2002, pp. 52-54.
8. Dovrebbe essere ormai risaputo come i movimenti si possano trasformare in istituzioni grazie alla lezione del sociologo Alberoni. Cfr. Alberoni, Francesco, Movimento e istituzione. Teoria generale, Il Mulino, Bologna, 1981.

Bibliografia

Alteriani, Fulvio, Zen. Filosofia, arte della vita, pratica quotidiana, Giovanni De Vecchi Editore, Milano, 1996.
Eco, Umberto, Opera aperta, Bompiani, Milano, 1962.
Hoover, Thomas, La cultura zen, Arnoldo Mondadori, Milano, 1981.
Izutsu, Toshihiko, La filosofia del Buddhismo Zen, Astrolabio-Ubaldini, Roma, 1984.
Martorella, Cristiano, Gioco linguistico e satori, Relazione del corso di Filosofia del Linguaggio, Facoltà di Lettere e Filosofia, Università di Genova, 1999.
Martorella, Cristiano, Quando Uzume salvò il mondo con una risata, Relazione del corso di Linguistica, Facoltà di Lettere e Filosofia, Università di Genova, 1999.
Puech, Henri-Charles, Storia del Buddhismo, Laterza, Bari, 1984.
Suzuki, Daisetsu Teitaro, Manual of Zen Buddhism, Rider and Company, London, 1974.
Suzuki, Daisetsu Teitaro, Zen and Japanese Culture, Bollingen Series, New York, 1959.
Vattimo, Gianni, Al di là del soggetto, Feltrinelli, Milano, 1981.
Vattimo, Gianni, Il soggetto e la maschera, Bompiani, Milano, 1974.
Vattimo, Gianni, La fine della modernità, Bompiani, Milano, 1985.
Vattimo, Gianni, Le avventure della differenza, Garzanti, Milano, 1979.
Watts, Alan, Lo Zen, Bompiani, Milano, 1959.
Watts, Alan, La via dello Zen, Feltrinelli, Milano, 1960.
Watts, Alan, Beat Zen & altri saggi, Arcana Editrice, Milano, 1973.
Yamamoto, Fumio, Nihon masu komyunikeishon shi, Tokai daigaku shuppankai, Tokyo, 1981.
Zecchi, Stefano, Sulla fine del moderno, in "Alfabeta", n. 73, 1985.

Mitsubishi Motors cerca alleato

Mitsubishi Motors sta cercando un accordo per stringere un'importante alleanza. PSA Peugeot Citroen, il secondo produttore europeo di automobili, vorrebbe allearsi con Mitsubishi Motors, il sesto produttore automobilistico giapponese. Se l'aggregazione dovesse arrivare a buon fine, si avrebbe come risultato un gruppo industriale che sarebbe il sesto a livello mondiale con 4,45 milioni di automobili, 1,19 per la parte giapponese. L'operazione non sarebbe una novità per il Sol Levante, ma seguirebbe una via perseguita con successo dalla Nissan. Infatti, dal 1999 la Nissan è legata con la Renault, guidata con abilità da Carlos Ghosn. L'operazione sarebbe realizzata tramite l'acquisto di una partecipazione del 30-50% del capitale della società giapponese. Le indiscrezioni pubblicate dal quotidiano "Nikkei" hanno provocato una crescita del valore dei titoli Mitsubishi in borsa.
Cristiano Martorella

sabato 28 novembre 2009

La politica del Minshuto

La politica del Minshuto
di Cristiano Martorella

Le donne giapponesi alle elezioni

Un aspetto interessante delle recenti elezioni giapponesi del 30 agosto 2009 è stato rappresentato dalle candidature femminili. Lo stesso Minshuto (Partito Democratico) che ha vinto le elezioni, è stato molto attivo nel sostenere le candidate del gentil sesso. Il Minshuto ha così fornito molte delle donne elette alla Camera. Alcuni giornali giapponesi le hanno soprannominate "principesse", e l'effetto che ciò ha dato all'immagine del partito è stato sicuramente positivo. Fra le vittorie delle candidate ci sono quelle della ventottenne Fukuda Eriko, di Tanaka Mieko, della professoressa universitaria Ebata Takako, e della giornalista Aoki Ai.

Il Minshuto fra progressisti e conservatori

Ci si chiede quale sia l'effettiva posizione del Minshuto rispetto alla politica tradizionale giapponese. Una risposta parziale può essere fornita dall'analisi dei componenti eletti fra le file del Minshuto. I rappresentanti maggiormente progressisti sono costituiti da Chiba Keiko, Ministro della Giustizia, una ex dirigente socialista, e da Sengoku Yoshito, avvocato ed ex militante del Zengakuren (movimento radicale di sinistra extraparlamentare). I socialisti partecipano alla coalizione anche con Fukushima Mizuho, avvocatessa succeduta a Doi Takako alla guida del Partito Socialista nel 2001. Ci sono poi alcuni sindacalisti. Kawabata Tatsuo, Ministro dell'Istruzione, è stato ingegnere e sindacalista nel settore delle fibre sintetiche. Naoshima Masayuki è stato vicepresidente della confederazione dei sindacati dell'auto. Infine Hirano Hirofumi, ora capo segretario di gabinetto, è stato membro del direttivo sindacale alla Matsushita-Panasonic. L'esecutivo di Hatoyama ha visto anche rafforzarsi la presenza di esponenti dell'area economica di Osaka e Nagoya che è considerata la "Porta dell'Asia", nonché la zona ricchissima del Kansai. Quest'ultima sposta l'economia giapponese verso la Cina e il continente asiatico, i cui rapporti commerciali sono aumentati costantemente, indebolendo la dipendenza dagli Stati Uniti.

martedì 17 novembre 2009

Futenma

L'incontro fra Barack Obama e Hatoyama Yukio non ha portato a progressi sulla questione di Futenma. Si è soltanto concordato che una discussione per giungere all'accordo sarà portata avanti. Intanto Hatoyama fa sapere che il governo giapponese preferisce finanziare missioni di pace in Afghanistan basate sulla ricostruzione piuttosto che sul supporto logistico alle truppe americane, e contestualmente riduce drasticamente i rifornimenti di carburante fornito alle navi militari statunitensi. La questione di Okinawa è stata un tema della campagna elettorale di Hatoyama Yukio, e non riuscire a ottenere quanto richiesto sarebbe una dura sconfitta. A Futenma c'è una base militare americana, vicino alla città di Ginowan. Le esercitazioni dei militari comportano troppi rischi per i civili, e in più occasioni gli elicotteri armati sono precipitati su abitazioni civili. Sorvoliamo poi gli incresciosi avvenimenti delle violenze sessuali dei soldati americani sulle ragazze giapponesi che hanno terribilmente contribuito ad aumentare l'ostilità contro la presenza americana. La situazione si trascina da troppo tempo e incomincia a diventare insostenibile.
Cristiano Martorella

Nessuna scusa per Hiroshima

Nonostante il clima di distensione, e il premio Nobel vinto per la pace, Barack Obama non riesce a fare un passo indietro ammettendo la gravità dei bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki. Le autorità giapponesi avevano suggerito quanto fossero ritenute opportune le scuse per un atto che storicamente appare simile ad altri crimini di guerra, nell'evidenza dello sterminio di massa indifferenziato. Ma la storia è sempre scritta soprattutto dai vincitori, e ciò impedisce di far emergere i fatti piuttosto che le interpretazioni politiche. Negli Stati Uniti ancora vige una versione storica che considera i bombardamenti atomici del Giappone come necessari per evitare una strage di truppe americane in un eventuale sbarco. Questa giustificazione è falsa. I bombardamenti atomici furono un test per valutare l'effettiva potenza e la possibilità di utilizzo delle armi nucleari, e nello stesso tempo un avvertimento per la crescente potenza sovietica. Le città giapponesi furono un cinico bersaglio sacrificato in nome della ragion di stato. La giustificazione del bombardamento atomico è stata supportata per anni da una mistificazione di regime che ha sempre ridicolmente descritto i giapponesi come ostinati combattenti pronti a morire tutti pur di non arrendersi. Sappiamo invece da numerosi documenti che le autorità politiche giapponesi erano consapevoli di aver perso la guerra e cercavano semplicemente una resa dignitosa. Già il primo ministro Koiso Kuniaki era convinto nel giugno 1944 che la guerra fosse irrimediabilmente perduta. Ciò che ricercavano i giapponesi era di non perdere la faccia, e conservare un dignitoso onore anche nella sconfitta. Però le trattative per una resa non furono facilitate dagli Stati Uniti che pretesero l'umiliazione del Giappone con una resa incondizionata e l'occupazione militare del paese. Il primo ministro Suzuki Kantaro era così deciso a ottenere la resa che accettò anche le condizioni più umilianti. Il Giappone perse la sua indipendenza e ritorno un paese sovrano soltanto nel 1952. I territori del Giappone furono drasticamente ridimensionati sottraendo tutte le zone acquisite dopo il 1895, ossia all'epoca del Trattato di Shimonoseki. Anche Okinawa divenne una regione ad amministrazione fiduciaria americana, e alcune isole a nord dell'Hokkaido furono cedute all'Unione Sovietica. Il Trattato di San Francisco del 1951, e il suo rinnovo a Washington nel 1960, pose delle condizioni molto limitanti per il Giappone, e sancì una subordinazione politica del Giappone alla potenza militare americana. Gli scontri violentissimi fra manifestanti e polizia che si ebbero nel periodo della firma dei trattati furono sostenuti sia dall'estrema sinistra sia dall'estrema destra, in un clima di generale insoddisfazione della popolazione. Tutto ciò non può essere dimenticato e cancellato. Gli Stati Uniti possono e devono fare un passo indietro per vedere la storia del bombardamento atomico di Hiroshima e Nagasaki senza più usare le lenti distorcenti della politica.
Cristiano Martorella

venerdì 13 novembre 2009

Note su Hiroshima

Segnalo la pubblicazione in Italia del libro Note su Hiroshima dello scrittore Oe Kenzaburo.

Oe, Kenzaburo, Note su Hiroshima, trad. it. di Gianluca Coci, Alet, Padova, 2008, 224 pagine, 15 euro.

Il libro costituisce un originale saggio che raccoglie riflessioni, testimonianze, documenti, ed è magistralmente ordito nel filo narrativo di Oe Kenzaburo.

Cristiano Martorella

mercoledì 4 novembre 2009

Profumo di ghiaccio

Segnalo la pubblicazione di un romanzo della scrittrice Ogawa Yoko, una delle autrici più interessanti del panorama letterario giapponese.

Ogawa Yoko, Profumo di ghiaccio, Il Saggiatore, Milano, 2009.

La storia è ambientata nel mondo dei creatori di profumi, ed è un thriller avvincente che include anche rompicapi matematici.

Cristiano Martorella

sabato 24 ottobre 2009

Varo della Hyuga DDH-181







Il varo della Hyuga DDH-181
Entrata in servizio il 18 marzo 2009, varata il 23 agosto 2007 nei cantieri di Yokohama, la nave Hyuga DDH-181. Questo incrociatore portaeromobili è lungo 197 m e largo 33 m, ed ha un dislocamento di 13.950 t (18.000 t a pieno carico). L'unità dovrebbe imbarcare 11 elicotteri, divenendo l'ammiraglia della flotta. Non sono mancate le polemiche per l'entrata in servizio di questa potente nave che rafforza in modo notevole le capacità di attacco del Giappone. Il nome Hyuga è lo stesso di una precedente corazzata della Marina Imperiale che era stata impiegata nella Prima e Seconda Guerra Mondiale.
Cristiano Martorella






sabato 17 ottobre 2009

Nichiren fra nazionalismo e militarismo

Nichiren fra nazionalismo e militarismo
di Cristiano Martorella

Nichiren (1222-1282) fu fra i più importanti monaci buddhisti riformatori dell'epoca Kamakura, e il suo ruolo di spicco appare non soltanto nella religione, ma anche e soprattutto nella storia e nell'ideologia della nazione giapponese. Attualmente la sua figura militante è associata ad alcune organizzazioni buddhiste che ne usano il nome e gli insegnamenti senza approfondire uno studio storico del personaggio, e ne nascondono volutamente i risvolti più controversi. Paradossalmente queste organizzazioni si presentano come sostenitrici del pacifismo, senza rivelare le contraddizioni e le strumentalizzazioni che si sono operate sulla figura di Nichiren. Egli, infatti, non soltanto fu invocato nelle preghiere dei buddhisti desiderosi della pace mondiale, ma venne idolatrato dai nazionalisti giapponesi che ne fecero un modello della loro dottrina politica. La confusione operata sulla figura di Nichiren fu facilitata dagli stessi atteggiamenti intransigenti che il monaco ebbe durante la sua vita. In particolare, alcuni suoi insegnamenti risultarono adatti a giustificare la politica militarista e imperialista del Giappone. Nel 1260 Nichiren aveva presentato al governo giapponese un documento intitolato Rissho ankoku (Insegnamento corretto per la pace della nazione) in cui spiegava il suo punto di vista. Secondo Nichiren, il Giappone era divenuto l'unico paese dove si praticava ancora l'autentico buddhismo, essendo ormai stato cacciato dall'India ed essendo anche in declino nella Cina. Quindi il governo giapponese aveva la responsabilità di preservarlo intatto perché soltanto il paese del Sol Levante aveva quel dono degli dei, anzi doveva davvero impegnarsi per diffonderlo nel mondo. Per compiere questa missione, il governo giapponese avrebbe dovuto proibire tutte le altre religioni, arrestando e giustiziando i sacerdoti dei culti rivali, e radendo al suolo tutti i loro templi. Nichiren non si riferiva solo alle religioni straniere, ma anche alle altre scuole buddhiste avversarie che considerava responsabili di trasmettere un falso buddhismo. Quest'ultimo insegnamento è presente anche oggi in tutte le sette che si ispirano a Nichiren. Infatti esse dichiarano apertamente che soltanto il buddhismo di Nichiren è quello autentico, mentre ogni altra scuola buddhista è falsa. Per far comprendere meglio il rapporto esclusivo e speciale fra il buddhismo e il Giappone, Nichiren scrisse nell'oggetto di culto (Gohonzon), venerato dai suoi seguaci, i nomi di due divinità protettrici del paese del Sol Levante, Hachiman e Tensho Daijin. Quest'ultima è anche chiamata Amaterasu Omikami dagli shintoisti, ed è la dea del sole che fondò, secondo la mitologia giapponese, la dinastia imperiale. Nichiren non si fermò a dichiarare la necessità di eliminare le altre religioni, ma nel testo intitolato Kaimokusho (Aprire gli occhi) spiega come la religione fosse ormai praticata con violenza, e non bisognava fermarsi alle apparenze delle parole, bensì prepararsi allo scontro fisico e all'aggressività. Questo insegnamento fu immediatamento seguito dai suoi seguaci. Il samurai Shijo Kingo raccontò nelle sue lettere di aver combattuto ferocemente contro i suoi avversari, e ciò provocò il compiacimento di Nichiren che lo incoraggiò sempre, e soprattutto gli raccomandò prudenza considerando l'irruenza dell'amico. La crudeltà degli scontri non risparmiò nemmeno lo stesso Nichiren che fu più volte aggredito. Nel 1264, in un suo viaggio ad Awa, Kagenobu Tojo tentò di assassinarlo. Ciò non scoraggiò Nichiren che riprese la sua predicazione basata sulla pratica dello shakubuku. Lo shakubuku, letteralmente spezzare e sottomettere, era un metodo di conversione basato su una veemente predicazione capace di confondere l'auditorio con la provocazione e suscitare deliberatamente l'ira. Secondo Nichiren, era un metodo efficace di conversione perché produceva uno sconvolgimento emozionale e creativo. In realtà ciò provocò le antipatie e l'ostilità delle autorità governative, mal disposte a sopportare disordini e risse, e soprattutto delle altre sette buddhiste, divenute oggetto di una critica feroce e violenta. Il risultato fu la condanna di Nichiren all'esilio per ben due volte, la prima dal 1261 al 1263 a Izu, la seconda dal 1271 al 1274 nell'isola di Sado. Nichiren giustificò le condanne che lo colpirono come una persecuzione nei confronti dei seguaci del Sutra del Loto, e ciò aggravò il suo fanatismo e la sua intolleranza. Infatti, quando fu liberato nel 1274, decise di ritirarsi in isolamento sul monte Minobu, dove visse in estrema solitudine. Durante la sua esistenza, aveva affermato la sicura salvezza attraverso la sua pratica religiosa, ma negli ultimi anni di vita incominciò a esprimere la speranza nella rinascita nel Ryozen jodo (La terra pura della montagna dello spirito), in netta contraddizione con l'insegnamento fino ad allora predicato. Nichiren aveva sostenuto che tutti i desideri espressi si sarebbero realizzati, purtroppo per lui non fu affatto così. Il governo giapponese non seguì i suoi consigli, i suoi avversari delle sette Zen e Jodo accrebbero il loro potere, e l'intero paese non scelse di seguire esclusivamente la sua religione. Nel Giappone contemporaneo non si professa affatto l'unica religione auspicata da Nichiren, ma è garantita la libertà religiosa a diversi gruppi di buddhisti, shintoisti e cristiani.

La vicenda esistenziale di Nichiren si è prestata a varie e contraddittorie interpretazioni. In particolare, Nichiren fu considerato come il salvatore del Giappone dall'invasione dei mongoli (1274 e 1281). Egli infatti aveva predetto, insieme ad altre terribili disgrazie, un'invasione da parte dei mongoli. In realtà la profezia di Nichiren era un po' differente, avendo auspicato una punizione per il popolo giapponese se non avesse seguito la sua religione. Ma ciò non avvenne perché i mongoli furono travolti da un tifone, e questo permise ai sacerdoti shintoisti di giustificare gli eventi come un atto della protezione degli dei attraverso il kamikaze (vento divino). I seguaci di Nichiren, invece, continuarono a sostenere che l'intervento del monaco fu provvidenziale, e addirittura egli avrebbe inventato la bandiera del Sol Levante (hinomaru) e l'avrebbe consegnata alle truppe giapponesi. Questa leggenda si è conservata nell'immaginario collettivo tanto da riapparire nelle considerazioni dei militari giapponesi. Quando l'ammiraglio Heihachiro Togo (1847-1934) si apprestava ad affrontare la flotta russa, egli si recò a pregare davanti all'enorme statua di bronzo di Nichiren che si trova a Fukuoka per ricordare la profezia dell'invasione dei mongoli. La vittoria schiacciante ottenuta a Tsushima (27 maggio 1905) sembrò convalidare la credenza che il Giappone avesse dovuto dominare il mondo. Altri militari e politici incominciarono a sostenere, interpretando a loro modo l'insegnamento di Nichiren, che la missione del Giappone consisteva nel diffondere la sua civiltà nell'intero pianeta. Sfruttando il fanatismo e l'intolleranza presenti nelle affermazioni di Nichiren, lo piegarono facilmente ai loro scopi politici. Nichiren sosteneva che l'unica religione vera fosse quella da lui predicata, e soprattutto condannava il lassismo e la passività, esortando al proselitismo e alla missione di kosen rufu (diffusione della fede). Nelle mani dei militari queste idee divennero una giustificazione della brutalità della guerra, considerata come una forma di rigenerazione e trasformazione del mondo. Un altro principio espresso da Nichiren, il principio di itaidoshin (diversi corpi uno stesso cuore), era manipolato per consolidare l'autoritarismo e la sensazione che il conformismo e l'obbedienza fossero il miglior bene auspicabile.

Fra i militari che sfruttarono il nazionalismo di Nichiren, spicca la figura del colonnello Kanji Ishiwara (1889-1949), un personaggio di spicco nella storia della guerra. Egli provocò, nel settembre 1931, l'incidente alla ferrovia presso Mukden in Manciuria, che diede l'avvio alla guerra con la Cina e all'invasione dell'Asia. Ishiwara era un sostenitore dell'occupazione dell'Asia e credeva nella necessità di uno scontro armato fra Stati Uniti e Giappone. Egli si basava sull'interpretazione della profezia di Nichiren, secondo il quale ci sarebbe stata una grande guerra che avrebbe messo fine a tutti i conflitti. Inoltre Ishiwara affermava che la guerra avrebbe spianato la strada alla ricostruzione e quindi fosse un processo di civilizzazione, e inoltre avrebbe risolto definitivamente la crisi economica.
Queste idee e interpretazioni di Kanji Ishiwara non erano isolate, ma erano molto diffuse e provenivano da un clima politico estremista e fanatico affermatosi in Giappone. Rinjiro Takayama (1851-1902) proclamò l'adesione incondizionata alla teoria della superiorità della nazione giapponese, e soprattutto si orientò verso una forma di individualismo di ispirazione nietzschiana, imperniato sulla convinzione che l'emozione estatica fosse il fattore più importante nella formazione dell'uomo. Per Takayama il superuomo nietzschiano era incarnato perfettamente da Nichiren. Ancora più esplicito fu Chigaku Tanaka (1861-1939), un esponente del partito nazionalista di destra, che nel periodo Taisho (1912-1926) promosse ciò che egli definì nichirenismo (nichirenshugi). Il nichirenshugi è una dottrina sviluppata come reazione ai movimenti dei lavoratori, e che sosteneva la fedeltà allo stato nazionale (kokutai) con a capo l'imperatore. L'influenza di Chigaku Tanaka fu forte nel periodo Taisho e fu una delle fonti del nazionalismo militante giapponese. La sua ideologia lasciò segni anche in Kakutaro Kubo (1892-1944) fondatore della setta Reiyukai.
Nissho Inoue (1886-1967) fu un altro fervente sostenitore del nichirenismo che interpretava il pensiero di Nichiren in chiave nazionalista e militarista. Nissho Inoue, oltre a sostenere con forza le sue idee come intellettuale e pensatore, divenne anche un attivista politico e leader del Ketsumeidan, un gruppo terroristico di estrema destra che provocò l'assassinio del ministro Junnosuke Inoue.
Anche i monaci si schierarono apertamente con il regime militare. Nell'aprile 1938 un gran numero di monaci eminenti della Nichiren Shu fondarono l'Associazione per la pratica del buddhismo secondo la via imperiale (Kodo bukkyo gyodo kai). A capo dell'associazione vi era il monaco Nichiko Takasa che sosteneva di aver raccolto circa 1800 iscritti. La Kodo bukkyo gyodo kai affermava l'unità divina del sovrano e del Buddha, e la venerazione dell'imperatore. Ciò era in netto contrasto con quanto predicato da Nichiren che affermava la superiorità del buddhismo nei confronti dello shintoismo, e la necessità che le autorità governative si adeguassero all'insegnamento della sua dottrina. Alcuni evidenziarono il contrasto e si verificò una parziale rottura fra laici e monaci che sarebbe divenuta più marcata nel dopoguerra. Infatti in quel periodo i dissidenti furono facilmente emarginati e messi a tacere con l'arresto.

Nella società contemporanea ci sono molte sette religiose e organizzazioni di laici che si ispirano a Nichiren. Quasi sempre sono in conflitto fra loro, come il caso eclatante della Nichiren Shoshu che nel 1991 ha scomunicato i membri della Soka Gakkai. Le lotte e i conflitti fra le diverse scuole che si ispirano a Nichiren dimostrano la difficoltà a interpretare correttamente i suoi insegnamenti. Nichiren predicava l'unità dei fedeli della sua religione, nel rispetto del principio di itaidoshin. Però le varietà di interpretazioni che sono state fornite indicano anche la necessità di una maggiore conoscenza storica delle vicende. Un approfondito studio che distingua una conoscenza approssimativa, o peggio, una completa ignoranza dei fatti, dalla consapevolezza della pratica buddhista. Infatti, il Buddha storico, Shakyamuni, insegnava che l'ignoranza è l'origine di tutti i mali. Riconoscere il problema è già l'inizio del cammino che porterà a risolverlo. Per questo motivo bisogna assolutamente squarciare il velo dell'illusione che ci presenta un buddhismo senza difficoltà, contrasti e contraddizioni. Questa illusione non rispecchia la storia del buddhismo che ha in sé anche molte vicende negative.


Bibliografia

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