giovedì 17 giugno 2010

Radici del pensiero giapponese

Estratto del cap. 2 della tesi di laurea di Cristiano Martorella.

Cristiano Martorella, Il concetto giapponese di economia dal punto di vista epistemologico, Facoltà di Lettere e Filosofia, Università degli Studi di Genova, A.A. 1999-2000.

Capitolo 2. Le radici del pensiero giapponese

2.1 L’approccio antropologico alle religioni orientali
2.2 Estetica come morale
2.3 Identità di immaginario e reale
2.4 Shintoismo e unità nazionale
2.5 L’innesto del confucianesimo
2.6 Il contributo filosofico del buddhismo
2.7 Implicazioni economiche per l’influenza delle credenze
religiose
2.8 Rivisitazione del concetto weberiano di “disincanto del
mondo”



Il concetto giapponese di economia dal punto di vista epistemologico

Capitolo 2. Le radici del pensiero giapponese


2.1 L'approccio antropologico alle religioni orientali

Seguendo l'esempio dell'opera di Weber (1), incominceremo l'analisi della razionalità giapponese dallo studio delle credenze religiose e dell'influenza delle dottrine sul pensiero comune. A tal proposito dobbiamo subito mettere in luce una delicata questione. Noi crediamo che sia profondamente sbagliato impegolarsi nella trattazione minuziosa e capziosa delle dottrine religiose senza che si spieghi la loro funzione ultima, ossia l'influenza sul comportamento individuale e sull'organizzazione sociale.
L'accusa è rivolta ad alcuni orientalisti che in questi anni hanno proliferato grazie a una moda prevalente nella società occidentale, sulla scia di un interesse dilettantistico delle religioni orientali. Molti di questi studiosi hanno nascosto gli errori metodologici e le carenze delle loro ricerche dietro la scusante di un supposto "mistero dell'Oriente". O peggio, nella citazione pedissequa di nomi senza alcun contatto con un pensiero coerente o una teoria esplicativa.
Nessuno dovrebbe accettare questo modo di procedere. Quando non si è capaci di spiegare qualcosa, ciò è indice che non si conosce a fondo l'argomento trattato (2). Il lavoro dell'intellettuale deve essere di chiarire il pensiero. E quando si accorge che non è riuscito a renderlo comprensibile deve ricominciare da capo, instancabilmente (3). Il fatto che ci occupiamo di cultura orientale non significa disporre di una particolare immunità. Riconoscere la diversa razionalità del pensiero orientale non implica una resa incondizionata della comprensione. Riuscire a spiegare la razionalità giapponese è un sforzo immane, ma non si può sfuggire in eterno a questo che è un compito dell'intellettuale (4).
Dunque non accettiamo misteri di alcun genere, altrimenti non saremmo più nell'ambito della scienza, e noi invece aspiriamo a restarvi. Infine ricordiamo che l'idea prevalente dell'Oriente è soprattutto un'immagine falsa che ci siamo creati noi occidentali.
Un'altra osservazione riguarda il tipo di indagine esclusivamente basata sullo studio critico di testi, senza alcuna verifica sul campo. Invece l'approccio più utile allo studio della religione è quello di tipo antropologico. Crediamo che sia molto più interessante il comportamento umano rispetto alle dispute dottrinarie (5). Quindi ci avvarremo anche di nostre considerazioni che provengono da una conoscenza diretta, dalla visita in più occasioni di templi e luoghi sacri del Giappone, dalle lunghe conversazioni con i giapponesi. Ciò detto considereremo con la massima stima gli studi degli orientalisti, ma senza che essi influenzino la nostra impostazione della questione che abbiamo già descritto in precedenza.
Shintoismo, buddhismo e confucianesimo sono le tre religioni che hanno avuto la maggiore influenza nella storia del Giappone.
Per essere corretti, è impreciso usare il termine religione nei confronti di buddhismo e confucianesimo, poiché si presentano in maniera del tutto singolare, e spesso con caratteristiche del tutto differenti dalle religioni, specialmente monoteiste. Molti autori, correttamente, evitano quindi di chiamarle religioni. Noi per amore di chiarezza e semplicità continueremo a usare il termine "religione", ma dopo tale premessa è chiaro che è da intendere in maniera molto elastica.

2.2 Estetica come morale

La più antica e primigenia religione del Giappone fu lo shintoismo. La parola shinto significa letteralmente "la via degli dei". Il termine giapponese per designare gli dei è kami. Nel linguaggio parlato è però usato kamisama che è una forma più rispettosa (sonkeigo). La parola shinto non esisteva e fu coniata soltanto dopo l'arrivo del buddhismo per permettere una distinzione fra i due culti.
Il buddhismo fu introdotto in Giappone nel VI secolo, mentre lo shintoismo esisteva già da tempo immemore. La tradizione fa risalire questo culto alla creazione dell'arcipelago giapponese. La divinità solare Amaterasu Omikami avrebbe inviato il nipote Ninigi da cui sarebbe disceso Jinmu Tenno, il primo imperatore del Giappone. Nel 660 a.C. egli sarebbe asceso al trono. Anche se questa datazione è leggendaria (Bramsen riteneva che la data corretta fosse il 130 a.C.) resta comunque indicativa della prospettiva temporale tracciata dallo shintoismo che si intreccia, realmente o fantasticamente, con la storia politica del Giappone.
Lo shintoismo è un culto privo di dottrina morale. Inoltre è del tutto assente un'impostazione del problema dell'aldilà. Non c'è una escatologia né una soteriologia. Dunque non è posta nemmeno la questione del bene e del male. Questo che agli occhi degli occidentali sarebbe una debolezza di tale culto, secondo noi è invece un elemento che lo rende più leggero e flessibile, penetrando nella mentalità giapponese inavvertitamente. Importantissimo nello shintoismo è invece la presenza di riti purificatori per eliminare l'impurità (kegare) contratta. Essi sono harae (esorcismo), misogi (abluzione) e imi (astinenza). Il concetto di purificazione è profondamente penetrato nella cultura giapponese. Non soltanto a livello del rituale, ma come concezione psico-sociale. Spesso i rapporti fra le persone sono condizionati da questa idea di purezza e il comportamento giapponese è intriso di manifestazioni di rispetto.
Non è difficile per un occidentale scorgere nel formalismo del giapponese una continua esibizione e ricerca di dignità. Lo scrittore Yoshida Kenko descrisse con acutezza questa particolarità dell'atteggiamento giapponese (6). Ed egli non mancò di sottolineare che per gli stessi giapponesi ciò costituiva una difficoltà nei rapporti e nella reciproca comprensione. La mentalità giapponese della purificazione è rintracciabile anche nella pratica del bagno (ofuro) che ha innanzitutto lo scopo di rilassare al termine della giornata, ma anche una valenza psicologica di purificazione dalle impurità contratte durante le attività quotidiane.
Essenzialmente lo shintoismo era praticato tramite offerte ai kami in riso, sakè, e altri alimenti (shinsen). Le offerte potevano anche essere stoffe e carte (gohei). Ciò avveniva soprattutto nel tempio (jinja), ma esisteva anche nella casa giapponese un piccolo altare in uno scaffale (tana) che era usato a tale scopo.
Il punto più interessante per la nostra trattazione riguarda questa concezione del mondo in cui gli dei sarebbero immanenti, presenti nel mondo reale. I kami pervaderebbero la realtà e molti oggetti avrebbero in sé uno spirito. Nello shintoismo è pratica comune indicare la presenza della divinità tramite uno shimenawa, un festone con strisce di carta che è legato all'oggetto sacro. Anche i torii, sorta di portali, segnalerebbero la presenza del divino nei luoghi naturali presso i templi shintoisti. Dunque la natura è considerata l'essenza dello spirito divino.
In questo senso il miracolo non è concepito come in Occidente, la divinità non può porsi sopra la natura poiché nello shintoismo la divinità è parte integrante della natura stessa. Così il tifone che distrusse nel 1281 la flotta dell'invasore Kublai Khan, poi chiamato kamikaze (vento sacro), sarebbe stato un atto divino realizzato tramite un semplice fenomeno naturale.
Importante è capire questo punto per comprendere come il pensiero giapponese sia ben poco caratterizzato da elementi sovrannaturali o di superstizione che vengono comunemente attribuiti al pensiero orientale. Il misticismo esiste, ma in modo differente da come immaginato dagli occidentali. Il giapponese vede e sente la magia, ma una magia che è nella realtà. Ogni oggetto e ogni azione pur minima è caricata di un valore che noi occidentali ignoriamo. L'incantesimo del giapponese è scoprire una sorta di magia nella realtà quotidiana.
Soltanto così si può apprezzare il sofisticato chado (oppure sado ), la cerimonia del tè, il quale non ha in sé nulla di particolarmente strano. Si tratta esclusivamente di preparare e servire il tè in una atmosfera di armonia seguendo un rituale di gesti che sono funzionali a una operazione pratica. La cerimonia del tè è la dimostrazione del senso della realtà giapponese. Un'azione comune diventa straordinaria. Ciò accade perché nel reale è compresente l'immaginario.
Questo ci riporta all'importante concetto di aware a cui abbiamo accennato alla fine del precedente capitolo. Secondo la definizione di Piero Corradini l'aware è la "compenetrazione dell'animo con il mondo circostante" (7). Essa si realizzerebbe nella vita quotidiana. "Questa intensa partecipazione alla vita delle cose che ci circondano si esprime anche nel sentimento di amore per le piccole cose che la natura elargisce, come i fiori e l'erba". Corradini riconosce anche che l'aware è "uno dei tratti importanti che formano la coscienza morale giapponese".
Crediamo che l'aware non sia comprensibile pienamente senza quella identità di immaginario e reale che analizzeremo fra poco. I giapponesi danno un valore del tutto diverso agli oggetti, investendoli di significati emotivi a noi sconosciuti.
Corradini riconosce che l'aware è alla base della "coscienza morale giapponese", ma sembra tralasciare che si tratta di una ben diversa morale quella che si fonda su criteri estetici. Non è particolare irrilevante.
L'idea centrale della nostra indagine è che per capire i fenomeni economici di una società complessa e sviluppata come quella giapponese è necessario adoperare un concetto di razionalità idoneo. Quindi individuare i fondamenti di tale razionalità è il passo essenziale e imprescindibile.Ciò che appare come una sfumatura può essere invece di importanza cruciale. Sul lungo periodo e su scala macroscopica la somma delle piccole diversità crea un abisso che separa irrimediabilmente il pensiero giapponese da quello occidentale.
In conclusione possiamo interpretare lo shintoismo come qualcosa di più di un semplice culto. Se manca nello shintoismo una dottrina abbiamo però, come si è visto, una estetica elevata al ruolo di morale. Le scelte che riguardano la condotta sono guidate da canoni estetici piuttosto che da norme etiche. Il concetto di bellezza è per il giapponese molto importante. Secondo il giapponese la bellezza è più di una caratteristica, è un valore assoluto.
La lingua giapponese è ricca di espressioni che indicano il coinvolgimento emotivo provocato dalla bellezza. Per esempio, kanashii hodo utsukushii (bello fino alla tristezza). Forse una poesia di Saigyo, fra le più note e amate dai giapponesi, è più chiara di ogni altra spiegazione:

Negawakuwa
hana no shita nite
haru shinamu
sono kisaragi no
mochizuki no koro

Desidero morire a primavera
sotto i ciliegi in fiore,
nella luna piena di marzo

Si può notare come il tema tragico della morte sia trasceso da una superiore percezione estetica della bellezza che ricompone il tutto in una visione distaccata ed estetizzante della vita.

2.3 Identità di immaginario e reale

Se dovessimo tradurre in giapponese il titolo di questo paragrafo, "Identità di immaginario e reale", ci troveremmo alquanto in difficoltà. Infatti l'idea giapponese di realtà è tanto distante dalla nostra che anche a livello linguistico le parole che traducono questo concetto sembrano non rendere l'idea occidentale. Il termine più simile a "realtà" è genjitsu. E in effetti scegliere genjitsu per tradurre "realtà" sarebbe grammaticalmente corretto. Ma lo sarebbe anche filosoficamente? Una consultazione dei dizionari giapponesi può chiarirci le idee. Vediamo alcune definizioni:

Ima, manoatari ni arukoto.
Le cose che si vedono con i propri occhi.

Ima, jissai ni aru jijitsu ya jotai.
I fatti e le condizioni che al momento esistono veramente.

Ima, gen ni jijitsu toshite sonzai shite iru kotogara.
Le cose presenti che esistono e sono vere. (8)

A quanto pare, almeno da un confronto linguistico, avremmo torto. La supposta differenza fra il concetto di realtà giapponese e realtà occidentale non esisterebbe. A questo livello superficiale non si distinguono differenze e nemmeno problemi di alcun genere. Ma la situazione è davvero così? Vediamo in particolare come il concetto occidentale di realtà si sia evoluto e come invece non corrisponda al concetto giapponese di realtà. Abbiamo già accennato come la separazione di spirito e materia sia inesistente nel modo di pensare giapponese. Nell'antichità si credeva che i kami fossero presenti negli oggetti e la natura stessa era considerata come il sacro.
In Occidente la più netta separazione fra mondo dello spirito e mondo della materia fu operata da René Descartes tramite la distinzione di res cogitans (pensiero) e res extensa (materia). Storicamente il metodo cartesiano ebbe un tale successo da finire per essere incorporato nella scienza moderna. Questa distinzione fu talmente forte da indirizzare tutta la filosofia della scienza, e soprattutto la filosofia del linguaggio, su una serie di questioni e problemi che nascono soltanto perché gli occidentali hanno acquisito queste categorie del pensiero. L'ultima elaborazione di tale suddivisione fu proposta da Karl Popper che distingueva: il mondo materiale, il mondo psichico e il mondo delle idee (9).
Incidentalmente vorremmo far notare come il pensiero occidentale proceda tramite separazioni e distinzioni, in modo selettivo, mentre il pensiero orientale consideri le cose nella loro totalità, in modo olistico. Se già nello shintoismo era presente un principio unitario della realtà che univa kami e oggetti nello stesso mondo, con il contributo del buddhismo abbiamo un'ulteriore smaterializzazione degli oggetti. Il buddhismo nega alla realtà la sua concretezza e afferma l'impermanenza di tutte le cose. Così è ben difficile affermare che esista una realtà distinta dallo spirito. Una delle espressioni più famose della lingua giapponese è ukiyo, termine che nacque in ambiente buddhista. Letteralmente ukiyo significa "mondo fluttuante", e indica il mondo materiale percepito dai sensi. Ma questo mondo è appunto di breve durata, evanescente ed effimero, un'illusione, e quindi meno certo dell'insegnamento di Buddha che è l'unica certezza accettabile. Si noti come un concetto astratto, il Buddha e il suo insegnamento, diventi più "reale" del mondo materiale che è delegittimato (10).
Il punto cruciale è che il mondo materiale non è contrapposto al mondo spirituale, esso è semplicemente negato nella sua esistenza. Esiste un solo mondo che si manifesta in una pluralità di mondi a causa dei sensi ingannevoli. La pluralità è dunque soltanto un effetto dei sensi. La dottrina buddhista ritiene l'universo unitario, così sarebbe inconcepibile una distinzione di spirito e materia. L'influenza del buddhismo si è inserita nella già esistente concezione immanente dello shintoismo fornendo un rinforzo ulteriore a una concezione unitaria della realtà. Il buddhismo può affermare che il mondo è impermanente ed effimero perché crede che esista una sola sostanza: res extensa (materia) e res cogitans (pensiero) coincidono.
Così far coincidere l'immaginario, il mondo psichico e del pensiero, con il reale, il mondo fisico, ci sembra il passo più naturale per avvicinarci al pensiero giapponese. La sovrapposizione di immaginario e reale non implica soltanto una visione mitica e magica, ciò che Weber chiamava "incanto" (Zauber), anzi al contrario. Credo che questo punto saliente sia stato risolto con efficacia da un "teorico della fantasia". Gianni Rodari, nel saggio la Grammatica della fantasia, esprime un'idea non comune (11). La fantasia non erode il pensiero scientifico ma collabora alla sua elaborazione. Pensiero scientifico e pensiero creativo non sarebbero in opposizione. Secondo Rodari la conoscenza nasce dal giocare con la realtà. Il momento in cui si scherza e finge con la realtà (ludico e fantasioso) e il momento in cui si cerca di conoscere (informativo) si alternerebbero senza una frattura netta. Queste considerazioni, apparentemente leggere, rimettono in discussione il concetto occidentale di razionalità dalle radici.
Anche Alberto Moravia si era accorto in un suo viaggio in Giappone della diversa percezione della realtà da parte dei giapponesi. Egli descrive la leggerezza del Giappone in un suo articolo per il Corriere della Sera (6 ottobre 1957) paragonando il paese alla lievità di un foglio di carta (12). Non è un caso che siano stati degli scrittori di narrativa a intuire questa diversità e a mostrarla meglio di sociologi e psicologi. Quando l'antropologa Ruth Benedict analizzò i tratti culturali giapponesi, ella si rifece in gran parte alla narrativa giapponese, citando soprattutto Natsume Soseki.
Ma l'identità di immaginario e reale ha sia vantaggi che svantaggi. Una difficoltà esiste nell'elaborare concetti astratti così come avviene nel pensiero occidentale. La situazione è questa: i giapponesi non hanno mai avuto una distinzione in due sostanze, una materiale e l'altra spirituale. Quindi essi finiscono per trattare idee astratte in maniera molto concreta e oggetti reali in maniera astratta. Come i giapponesi trasformino, tramite l'astrazione, gli oggetti concreti in opere simboliche è dimostrato da tutta l'arte giapponese sia tradizionale che contemporanea. Viceversa molti pensatori giapponesi hanno mostrato più volte la difficoltà di rendere nella lingua giapponese i concetti astratti delle lingue occidentali. E spesso la soluzione è stata trovata inventando parole o adattando vocaboli stranieri.
Il pensiero giapponese è molto concreto e legato a metafore che si rifanno a oggetti materiali caricati di significati simbolici, ma pur sempre cose concrete. Una costruzione per concetti è difficile e la stessa lingua ostacola questa elaborazione.
Gli studenti universitari giapponesi studiano concetti astratti formulati da pensatori occidentali, ma a volte hanno enormi problemi di comprensione. Ad esempio, la distinzione di Saussure in significante (la realizzazione fonica della parola, il suo suono) e significato (il concetto della parola), tradotta in giapponese con i termini noki e shoki, è un buona dimostrazione di questi problemi linguistici che nascono da apparati concettuali strutturalmente differenti. La resa con tali termini giapponesi non aiuta gli studenti poiché i kanji (caratteri cinesi) usati richiamano i concetti in questione, ma non in maniera immediata. Il primo utilizza il termine no (abilità), mentre il secondo sho (posto), insieme a ki (descrizione). Una attenta analisi rivela che la costruzione di queste parole è corretta, ma resta il fatto che tutto ciò non è intuitivo. Ciò accade perché il valore concettuale nella lingua giapponese è meno preponderante rispetto a quello espressivo, descrittivo e convenzionale. La difficoltà di traduzione non è dunque da imputare alla capacità degli autori, ma alle basi del ragionamento che sono strutturalmente diverse e che hanno quindi nella lingua un corrispettivo (13).
Anche Weber si era accorto di questo gap e attribuì la responsabilità allo sviluppo in Cina e in Giappone di una preminenza della scrittura rispetto alla comunicazione verbale e alla dialettica:

"[...] il pensiero rimase confinato in misura di gran lunga superiore nel visivo e la potenza del logos, della definizione e dell'argomentazione non si schiusero [...]"(14)

Weber credeva anche di aver individuato le cause storico-sociali:

"[...] non il parlare, ma lo scrivere e il leggere come ricezione dei prodotti artistici della scrittura erano considerati la vera attività di valore artistico e degna di un gentiluomo. Il parlare rimase essenzialmente una cosa da plebei."

E il paragone con l'Occidente era scontato:

"In completo contrasto con l'ellenismo, per il quale la conversazione era tutto e la trasposizione nello stile del dialogo costituiva la raffigurazione adeguata di ogni esperienza vissuta e di ogni scoperta [...]"(15)

Effettivamente la differenza fra lingua parlata (hanashikotoba) e lingua scritta (kakikotoba) è molto marcata nel giapponese moderno, e lo era ancora di più nel giapponese antico. Se poi si pensa all'importanza della calligrafia (shodo) che è ritenuta un'arte superiore alla pittura, allora si deve considerare con molta attenzione l'osservazione di Weber.
Comunque, qualunque siano state le cause di questa diversa evoluzione del linguaggio, è indubbio che esse hanno segnato lo sviluppo del pensiero giapponese. Probabilmente non esiste una sola causa, ma un insieme di fattori concomitanti. Difficilmente un solo motivo avrebbe potuto segnare così radicalmente tale evoluzione. Infatti, come ci insegna Max Weber, ma anche sociologi contemporanei come Niklas Luhmann, è solo nel sistema complessivo che le diverse variabili possono avere valore.
Qui abbiamo mostrato alcuni fattori che hanno indirizzato lo sviluppo singolare del pensiero giapponese, ma più avanti ne individueremo ancora altri.
Ma ritorniamo alla religione. L'atteggiamento religioso del giapponese è dunque molto pragmatico. La divinità ha una sorta di funzione molto pratica, e l'individuo ha pochi o nessun dovere nei suoi confronti. Dunque il giapponese, riguardo alla religione, non ha problemi di condotta morale di alcun genere. Tale atteggiamento porta al noto fenomeno del sincretismo religioso giapponese, ossia nel mutuare dalle diverse religioni gli aspetti più comodi al momento. Un aneddoto dice che i giapponesi scelgano il rituale in base alla bellezza del cerimoniale: nascano shintoisti, si sposino con il rito nuziale cristiano, celebrino il rito funebre buddhista.
L'indifferenza dei giapponesi nei confronti della religione è un dato di fatto. L'idea di un Giappone mistico è quindi uno stereotipo occidentale. E fu così anche nel passato. Questo confuterebbe chi crede che la modernizzazione abbia provocato una distruzione della tradizione filosofico-religiosa. In verità non è mai esistito niente del genere come è stato immaginato dagli occidentali.
Ma se è vero che la condotta della vita religiosa è tanto libera, è altrettanto vero che a livello di quella che Durkheim chiama coscienza collettiva l'influenza è forte. Come si può osservare, non esiste nella cultura giapponese un nucleo centrale di dottrine che ci fornisca direttamente il sistema di credenze, ma dobbiamo ricavarlo volta per volta da elementi diversi e disparati con uno sforzo enorme di concentrazione. E così dobbiamo procedere seguendo un tracciato finissimo e quasi inconsistente.
Ciò giustifica la difficoltà degli studiosi occidentali nell'affrontare l'argomento e il fatto che essi siano rimasti sbaragliati da tante e tali complessità. Perciò abbiamo insistito, e continuiamo a insistere, sulla necessità del metodo. Non esiste una strada già spianata che ci porti direttamente al concetto giapponese di razionalità e alle implicazioni economiche e sociali che ne derivano.

2.4 Shintoismo e unità nazionale

La mitologia shintoista si intreccia con la storia giapponese legittimando il potere imperiale e l'unità nazionale. Dunque il rapporto fra struttura sociale e credenze è molto stretto e merita una maggiore attenzione. Il Giappone fonda la sua unità politica su una base simbolico-immmaginaria che costituisce una forte identità psicologica. Invece gli stati occidentali si ispirano al modello illuminista del contratto sociale e alla libera associazione degli individui intorno a una unità di intenti.
In Occidente la politica ha assunto la forma dialettica, dove lo scontro delle idee e dei programmi politici è necessario per il libero esercizio del potere. In Giappone l'idea dello stato fu influenzata dalla filosofia confuciana e dal suo principio del rispetto delle norme (rei in giapponese, li in cinese).
Questo modo di concepire la politica può essere sintetizzato con quello che noi definiamo come il concetto di armonia. Così abbiamo in maniera immediata l'idea delle due diverse concezioni politiche: l'occidentale della dialettica e la giapponese dell'armonia. Possiamo riassumerle nelle loro caratteristiche secondo uno schema di dicotomie.

Dialettica / Armonia
Confllittuale e discorsiva / Aggregante e silenziosa
Matrice filosofica illuminista / Matrice filosofica confuciana

Ma prima di giungere alla concezione confuciana dello stato, il Giappone ha dovuto creare un'unità cultura e politica che non fu immediata e facile. Lo shintoismo ebbe un ruolo centrale in questa storia. I giapponesi popolarono l'attuale arcipelago provenendo dai mari del sud (Polinesia e Malesia). Essi si scontrarono con una popolazione autoctona, gli Ainu, di razza caucasica. La mitologia shintoista ricorda questi eventi nei testi del Kojiki (712) e del Nihongi (720).
I simboli dell'unità nazionale sono lo specchio (yata no kagami), la collana (yasaka ni no magatama), e la spada (ame no murakumo no tsurugi) che la dea Amaterasu Omikami consegnò al nipote Ninigi. Lo specchio richiama l'immagine del disco solare, la spada la spedizione contro gli Ainu, e la collana è un tipico emblema di potere delle popolazioni dei mari del sud.
Lo shintoismo rappresenta anche la prima forma di aggregazione sociale. Il nume tutelare (ujigami) del luogo era l'equivalente del simbolo totemico intorno a cui si costituiva la famiglia uji, ciò che in termini etnologici viene definito come clan. Un altro particolare rilevante è l'organizzazione matriarcale dell'antico Giappone. Ciò non è solo indicato dalla mitologia che vede una dea solare come fondatrice, ma dai testi cinesi (in particolare il Wei Chih del III secolo d.C.) che riferiscono di una regina Pimiku (Himiko in giapponese moderno) a capo del paese di Yamatai (la regione di Yamato nel Giappone centrale).
Come si è visto lo shintoismo è essenzialmente una religione ancestrale che affonda le radici nel passato antichissimo dei giapponesi. Ma esso non esaurì la sua forza nemmeno con l'impatto della modernità. In epoche diverse e motivi vari, lo shintoismo fu riproposto e rielaborato insieme a quei concetti che abbiano visto finora.
Una di quelle tante contraddizioni apparenti del Giappone, fu il ritorno vigoroso dello shintoismo nel XIX secolo, durante il periodo della modernizzazione. La restaurazione del potere imperiale, con il passaggio del governo effettivo dallo shogun all'Imperatore, segnò anche la necessità di una legittimazione forte di tale potere. La classe dirigente del Giappone fu così impegnata in un vasto processo di riforma dello stato. Anche la religione fu sottoposta a un severo controllo. Lo shintoismo divenne religione di stato (kokka shinto).
Con l'editto del 1882 si distinsero due categorie dello shintoismo: lo shintoismo del tempio (jinja shinto) e lo shintoismo delle sette (kyoha shinto). Il primo aveva funzioni istituzionali, il secondo era quello del culto popolare. Lo shintoismo del tempio fu sotto il controllo dell'amministrazione del Ministero degli Interni, mentre lo shintoismo delle sette fu affidato al Ministero dell'Educazione.
Si cercò inoltre di purificare lo shintoismo dalle commistioni con il buddhismo, in particolare il ryobu shinto elaborato dal monaco Kobo Daishi (774-835). Il ryobu shinto, forma sincretica di shintoismo e buddhismo, fu dichiarato illecito. Gli imperatori, e particolari personaggi, furono proclamati kami, e furono riprese in parte le teorie e gli studi di Norinaga Motoori (1730-1801), Hirata Atsutane (1776-1843), Kada no Azumamaro (1669-1736), Kitabatake Chikafusa (1293-1354).
Se si riflette un attimo su questi eventi storici, si può vedere l'originalità dell'agire razionale giapponese. Mentre in Occidente nel XIX secolo si scontrava lo spirito positivista con il sentimento religioso nel tentativo di una affermazione definitiva della scienza sulla religione, in Giappone si aggirava l'ostacolo. Invece di cercare di cancellare il sentimento religioso, lo si incanalava in forme controllabili e se ne usava la potenza carismatica. Chi aveva organizzato questo assetto istituzionale aveva le idee ben chiare di ciò che stava facendo. Questo tipo di razionalità che tiene conto anche dei fattori immaginari e delle credenze è inusuale in Occidente. Siamo dinanzi a un agire finalizzato a uno scopo che si avvale di un atteggiamento tradizionale. Probabilmente la razionalità giapponese agisce contemporaneamente su piani diversi che invece in Occidente sarebbero conflittuali.
Anche la storia europea ha conosciuto ideologie che hanno sfruttato l'immaginario collettivo, ma esse hanno dovuto inventare e costruire una mitologia che le legittimasse. Infatti quelle formulazioni erano basate su teorie che sono terminate con l'esperienza politica dei rispettivi regimi. Invece il governo giapponese del periodo Meiji (1868-1912) usò una mitologia preesistente che era già radicata nella mentalità giapponese ed era indipendente dal regime. Inoltre essa era talmente forte da non poter essere eliminata con la fine di quel potere politico.
Questo è un fatto che ha una rilevanza storica fondamentale. Dopo la disfatta della seconda guerra mondiale, il Giappone subì l'occupazione militare degli Stati Uniti, riacquistando l'indipendenza solo nel 1952. Considerando anche la minaccia comunista e la situazione della Corea, era interesse americano che il Giappone ritornasse a uno stato di normalità. Fu quindi una scelta ragionevole e ponderata quella di non esautorare l'Imperatore nonostante ciò che aveva rappresentato durante la guerra. Le forze di occupazione americane non pensarono nemmeno di processare l'Imperatore per giudicare le sue responsabilità nel conflitto, anche se ne avevano il potere. E nella stesura della costituzione giapponese (3 maggio 1947), i primi articoli furono dedicati alla figura dell'Imperatore, riconoscendone ancora il valore simbolico-istituzionale. Probabilmente il lavoro di Ruth Benedict, l'antropologa a cui fu commissionato dal governo statunitense uno studio accurato sul Giappone, era stato letto con molta attenzione. Ella aveva sottolineato l'importanza simbolica dell'Imperatore, e quanto l'unità politica giapponese dipendesse da fattori culturali, dal sistema di credenze e dall'immaginario collettivo.

2.5 L'innesto del confucianesimo

Molti autori tendono a definire la società giapponese neoconfuciana. Anche noi abbiamo usato l'aggettivo "confuciano", ma crediamo che questa sia una terminologia alquanto fuorviante e obsoleta. Come stiamo vedendo sono tanti e tali gli elementi originali che costituiscono la razionalità giapponese. Inoltre è pericoloso associare il Giappone esclusivamente a una filosofia cinese che ha avuto soltanto una parte, anche se importante, nella sua storia. Sia chiaro che il Giappone è profondamente diverso dalla Cina. La Cina è una società tradizionale le cui unità economiche sono ancora le famiglie. Il Giappone è una società adattativo-integrata (capace cioè di adattare e integrare le innovazioni scientifiche e tecnologiche di altre civiltà alla propria struttura sociale). E le sue unità economiche sono i gruppi di lavoro e le aziende.
Gli autori cinesi paragonano la Cina a un cumulo di sabbia e il Giappone a un masso di granito. Secondo i cinesi la struttura sociale giapponese è più rigida di quella cinese. In effetti il processo di razionalizzazione della società giapponese è talmente avanzato che dal punto di vista cinese appare fin troppo rigido.
Non dimentichiamo che anche Weber aveva definito la razionalizzazione della società come "una gabbia d'acciaio". Interessante è poi passare al paragone che fanno i giapponesi fra la loro società e quella occidentale usando l'immagine del muro.
Innanzitutto bisogna ricordare come sono fatti i muri alla base dei castelli giapponesi e la loro particolare tecnica di costruzione. Essi erano costruiti con sassi irregolari di diverse dimensioni e forme incastrati ad arte. I muri occidentali invece sono costituiti da massi perfettamente squadrati e uguali. Questo è forse il segreto delle due diverse forme di razionalità? L'Occidente ha bisogno di omologare e rendere conformi le componenti prima che entrino a far parte di uno schema. Il Giappone non cambia le diversità, ma le adatta in modo congeniale. L'Occidente opera una modificazione che precede il processo, mentre il Giappone non modifica la natura delle cose ma interviene durante il processo di assemblaggio. Si vede in che maniera sia radicalmente diversa la razionalità giapponese. Quindi è bene analizzare come e in quale misura il confucianesimo è stato adottato in Giappone per capire meglio queste differenze.
Il confucianesimo arrivò in Giappone insieme al sistema di scrittura cinese (VI secolo circa). Come si è visto le prime organizzazioni comunitarie giapponesi, le uji, erano assai primitive. La cultura cinese fu quindi, inizialmente, il modello di ispirazione del nascente stato giapponese. Ovviamente tale influenza investì esclusivamente le classi colte e l'aristocrazia. Le prime capitali del Giappone, Nara (710) e Kyoto (794), imitarono la topografia delle capitali cinesi. In particolare il modello fu Ch'ang-an, la capitale della Cina della dinastia T'ang. Anche oggi, visitando Kyoto, ci si rende conto immediatamente dell'assetto urbano e del particolare tracciato stradale assai diverso dalle altre città giapponesi.
Nel periodo Tokugawa si ebbe una ulteriore fioritura del confucianesimo con i lavori di Ito Jinsai (1627-1705) e Ogyu Sorai (1666-1728), studiosi noti per il loro atteggiamento scientifico e razionale. L'uso del confucianesimo fu dunque strumentale e limitato agli aspetti politico-istituzionali. Chi abbia studiato Confucio si rende immediatamente conto di quanto sia dunque limitata questa prospettiva.
Il principio della filosofia di Confucio che fu maggiormente adottato dai giapponesi e sviluppato è quello del rei (in cinese li), ossia il rispetto delle norme. Come fece notare anche Ruth Benedict, fu invece trascurato il principio del jin (cinese jen), traducibile con benevolenza oppure umanità (16). Gli studiosi giapponesi ne erano a conoscenza, ma non seppero come renderlo consono alla società giapponese. Ruth Benedict non spiegò i motivi di questa mancanza. Però chi conosce adeguatamente Confucio sa bene che il principio del jin è il più importante e fondamentale della sua filosofia. Il governante e il buon cittadino non possono prescindere da questo principio. Perché il concetto di benevolenza rimase estraneo alla cultura giapponese, mentre il rispetto delle regole fu considerato essenziale? Le spiegazioni sono psico-sociali. Come abbiamo visto l'individuo giapponese ha un rapporto emotivo molto forte con gli oggetti della realtà (vedi il concetto di aware). Se i giapponesi avessero lo stesso trasporto anche nei confronti delle persone, il loro comportamento sarebbe incontrollabile e socialmente distruttivo. Si immagini una comunità dove regnassero gli eccessi emotivi come la passione incontenibile, la gelosia esasperata, l'invidia nociva, l'ira furiosa, l'odio implacabile, etc. Non stiamo parlando di una supposizione. Leggendo le cronache delle storie di corte, ci si rende conto che questo fu un pericolo concreto. Quanto l'irrazionalità dei sentimenti minacci continuamente l'equilibrio psichico e sociale giapponese si può leggerlo nel Genji Monogatari, il capolavoro della letteratura giapponese, storia degli amori di corte del principe Genji. Anche i Diari (Nikki) dell'autrice, Murasaki Shikibu, sono di utilità per la comprensione di questa situazione.
Il principio della benevolenza era dunque incompatibile con il carattere giapponese. Non poteva esserci benevolenza senza il rischio che questa si tramutasse in un intreccio incontrollabile di sentimenti. Molto meglio seguire le regole formali e cercare un distacco che preservi l'individuo dalla carica distruttiva delle emozioni.
Se si vuole capire quanto sia seria tale questione anche in epoca moderna, è sufficiente leggere Kokoro, il capolavoro di Natsume Soseki (1867-1916). Forse gli occidentali hanno trovato una maniera diversa per evitare il potere distruttivo delle emozioni, così come ci insegna Sigmund Freud, tramite la sublimazione. Oppure gli occidentali, hanno semplicemente accettato i loro eccessi emotivi senza averne troppa paura.
Nella cultura giapponese gli eccessi emotivi sono considerati assolutamente negativi nel contesto della vita sociale. Esiste anche in Giappone la sublimazione tramite l'arte. E sicuramente ha un valore importantissimo. Il magnificente sviluppo delle arti in Giappone non è dunque occasionale, ma ha anche questa spiegazione. Resta comunque il fatto che reprime i propri sentimenti (kanjou o osaeru) è secondo il giapponese una virtù. E in questo senso il confucianesimo fu inteso soprattutto come un modello di organizzazione civile che permetteva di realizzare una società controllabile.

2.6 Il contributo filosofico del buddhismo

Secondo il buddhismo il male è l'attaccamento alle cose di questo mondo. E questo attaccamento è prodotto dal desiderio. L'origine dei desideri è soprattutto di natura psichica, dunque la sofferenza dell'uomo è provocata dai suoi pensieri.
Lo stato di satori (illuminazione) è quindi la condizione perfetta in cui l'uomo raggiunge il distacco dal mondo e il vuoto mentale. Eliminare il pensiero è la strategia del buddhismo per togliere la sofferenza. Ma lo stato di satori non è solo una condizione di privazione in cui si è eliminata la sofferenza.
Accanto a ciò c'è la convinzione che lo stato di satori permetta una conoscenza immediata e perfetta dell'universo. Possiamo spiegare ciò in maniera da non essere criptici. Se la mente non è concentrata sul pensiero, essa è in grado di cogliere tutte le percezioni sensoriali in maniera immediata e perfetta. Dogen spiegava tale idea in questo modo: "Tenete le mani aperte, e tutta la sabbia del deserto passerà tra le vostre dita. Chiudete le mani, stringerete soltanto qualche granello di sabbia".
La svalutazione del pensiero come mezzo conoscitivo è un punto centrale delle filosofia giapponese anche contemporanea. Ovviamente le posizioni sono diverse e si può passare da un totale disprezzo del pensiero a una moderata presa di distanza e ridimensionamento del valore del pensiero. Ma la filosofia giapponese non si limita a una semplice critica come mostrato sinteticamente finora, essa si poggia su una concezione dell'essere totalmente diversa. I primi filosofi occidentali (Martin Heidegger e Karl Löwith) che si occuparono della questione si accorsero immediatamente di tale differenza. E non poteva essere altrimenti, poiché la filosofia giapponese era chiarissima su questo punto.
Secondo la filosofia giapponese è il nulla (mu) a costituire l'essenza dell'universo. Nello sforzo di rendere comprensibile tale concetto i filosofi giapponesi diedero diverse definizioni del nulla: "niente assoluto" (Nishida Kitaro), "vuoto" (Nishitani Keiji), "sé senza forma" (Hisamatsu Shin'ichi), "mediazione assoluta" (Tanabe Hajime). L'argomento è talmente vasto che merita una discussione approfondita e più ampia in un capitolo a parte. Qui l'accenno è funzionale a una spiegazione dei tratti essenziali della razionalità giapponese e alle cosiddette radici del pensiero giapponese.
Si è visto come la filosofia giapponese derivi dal buddhismo, in particolare lo zen, una svalutazione dell'elaborazione concettuale. Dunque è un po' buffo parlare di pensiero giapponese quando la dottrina più importante di questa filosofia nega appunto ogni valore al pensiero.
Eppure tale contraddizione non sussiste, anche perché il concetto di contraddizione è piuttosto occidentale. Si deve accettare l'impaccio degli studiosi occidentali, compreso il nostro, come naturale e inevitabile. Spesso la descrizione in lingue occidentali di espressioni o concetti giapponesi diventa ridicola. La lingua giapponese si è evoluta insieme a quella spiccata sensibilità del popolo giapponese, e il passaggio dal giapponese a una lingua straniera comporta sempre una perdita incommensurabile. Quello che necessita allo studioso in tal caso è una buona dose di umiltà e tanto coraggio. Nonostante la situazione degli errori-orrori mostrata finora, non temiamo di scontrarci con le apparenti contraddizioni e i punti poco chiari. Al contrario, vogliamo trovare tutti i punti incongruenti e oscuri per dimostrare che la soluzione dipende dall'adozione di una diversa logica.
Il minore valore che si attribuisce in Giappone al pensiero è anche fra i motivi che hanno creato quella situazione di mancanza teorica a cui avevamo accennato fin dall'inizio. Se da una parte gli studiosi occidentali non erano dotati degli strumenti adeguati per studiare la razionalità giapponese, dall'altra parte i filosofi giapponesi non avevano interesse a occuparsi di un argomento apparentemente estraneo al loro modo di vedere.
Oggi la situazione sta radicalmente cambiando grazie a una maggiore collaborazione internazionale. Ma ci sembra che si stiano muovendo solo i primi timidi passi. Se siamo i primi ad affermare l'esistenza di un diverso concetto di razionalità alla base dell'agire giapponese, ciò è assai indicativo della situazione degli studi in questo ambito.
Ma cosa pensano i giapponesi di se stessi? Davvero esiste una differenza tanto marcata fra pensiero giapponese e pensiero occidentale? Possiamo continuare a usare il termine "pensiero giapponese" e che senso avrebbe ciò? Per fortuna la sociologia giapponese ci è di aiuto fornendoci un vocabolo che risponde a queste domande: nihonjinron (giapponesità). La parola nihonjinron viene spesso tradotta, per ragioni di semplicità, con "giapponesità". In effetti il significato completo di questo termine è "teoria della specificità della cultura giapponese". Questa parola è composta da nihonjin (individuo giapponese) e ron (teoria) (17). L'esistenza di questo vocabolo nell'ambito della scienza ci è di conforto e sostegno. Esso indica che esiste il problema che stiamo affrontando, una diversità del modo di pensare giapponese, anche nell'ambito della scienza giapponese. Inoltre il termine nihonjinron è molto vicino all'idea e all'uso che noi facciamo dell'espressione "pensiero giapponese".

2.7 Implicazioni economiche per l’influenza delle credenze religiose

Weber aveva mostrato che l'etica protestante era stata essenziale come elemento propulsivo del capitalismo. Ma ci sono anche nel buddhismo dei fattori che contribuiscono allo sviluppo dell'economia. Il buddhismo svilisce e mortifica i beni materiali, quindi a svantaggio dell'accumulazione di proprietà e capitali. Ma ciò non significa un inaridimento dell'economia, al contrario. Il non attaccamento alla proprietà incentiva la conversione del capitale in mezzi di produzione. Questo impulso straordinario alla produzione non è rintracciabile in altri sistemi ideologici. Nemmeno il tanto osannato "spirito del capitalismo" descritto da Weber giunge a tanto. Queste forme del capitalismo sono l'una l'inversa dell'altra. L'obiettivo del capitalismo occidentale è il profitto. La produzione è un mezzo per raggiungere il profitto. L'obiettivo del capitalismo giapponese è la produzione. Il capitale è un mezzo per incentivare la produzione.
La politica economica di Stati Uniti e Giappone sono la dimostrazione di queste due linee di pensiero. Nei momenti di crisi il governo giapponese investe nella spesa pubblica (politica economica keynesiana), mentre il governo americano opera tagli e licenziamenti. Nel marzo del 1998 il governo giapponese varò una manovra contro la crisi con uno stanziamento di 100.000 miliardi di lire in favore delle banche in difficoltà e una diminuzione delle tasse di 130.000 miliardi di lire. L'etica giapponese è un'etica della produzione. Non si è quel che si ha, si è quel che si fa.
Ma il buddhismo e il confucianesimo aggiungono un elemento assente nel capitalismo occidentale: il riconoscimento nel gruppo. Mentre l'etica protestante è un etica individualista (è sufficiente ricordare l'importanza del rapporto singolo-Dio descritto da Kierkegaard), l'etica buddhista e confuciana sono etiche del gruppo. Il buddhismo mortifica l'individualismo come vanità umana. Il confucianesimo esalta la collettività. In questa differenza c'è la natura totalmente diversa delle due forme di capitalismo. Il capitalismo occidentale sostiene la libera concorrenza ed esalta l'individualismo, il capitalismo giapponese favorisce la coesione sociale e incoraggia il gruppo.

2.8 Rivisitazione del concetto weberiano di "disincanto del mondo"

Alla luce di quanto detto finora, ci sembra nostro dovere rivedere le idee di Weber a proposito delle religioni orientali, e in particolare nel caso del Giappone. Innanzitutto abbiamo visto la sostanziale indifferenza del giapponese nei riguardi della religione e di come invece questa sia penetrata a un livello culturale più profondo e meno appariscente. Questo ci fa capire che non è nella teoria della dottrina religiosa che possiamo comprendere i rapporti fra pensiero e comportamento, ma soltanto più in profondità. Weber aveva ragione a vedere nella cultura giapponese ancora un pensiero irrazionale. Ma questo è ben lungi d'essere d'ostacolo al processo di organizzazione della società. Due sono i motivi che spiegano il potere di razionalizzazione del pensiero giapponese:

1) L'incanto e la magia giapponese coincidono con il pragmatismo, in quella unione di immaginario e reale su cui abbiamo insistito. La magia giapponese non è sovrannaturale, è tutta terrena e dei sensi.

2) L'immaginazione non è nemica del pensiero scientifico. Questa contraddizione non sussiste.

Quindi alla parola "irrazionale" andrebbe sostituita "diversa razionalità". E "pensiero irrazionale" dovrebbe essere corretto con "pensiero di diversa razionalità". Queste osservazioni sulle idee di Weber sono fruttuose se vengono ulteriormente elaborate.
In Giappone c'è stata una industrializzazione e modernizzazione senza il "disincanto del mondo". Weber chiamava "disincanto" (Entzauberung) il processo di razionalizzazione nella società che provocava l'eliminazione delle credenze mitiche, magiche e religiose in favore del pensiero logico e strumentale.
In Giappone non poteva esserci nessun disincanto poiché non c'era nulla da cui disincantarsi. Non è mai esistita una concezione di Dio come in Occidente, non si è mai creduto in uno spirito slegato dalla materia, non si è mai considerata la natura in contrapposizione all'umano. Il sacro, lo spirituale, il pensiero erano ben stretti alle cose materiali.
Così l'immaginazione non è stata mai intaccata dal pensiero scientifico perché è sempre vissuta fra gli oggetti concreti. I giapponesi sono ancora capaci di sognare a occhi aperti e contemporaneamente d'essere di una concretezza disarmante. Avremo occasione di parlare di Morita Akio, il fondatore della Sony, un personaggio che raffigura in sé questi aspetti della mentalità giapponese. Se usiamo il termine "sogno americano" per descrivere la capacità d'impresa e lo spirito d'iniziativa del capitalismo occidentale nordamericano, dovremmo trovare un equivalente per l'idealismo, l'ambizione e l'intraprendenza giapponese.
Ma prima di andare oltre fermiamoci ad analizzare una apparente contraddizione: il comportamento pragmatico guidato da una visione idealista della vita. Spesso le azioni dei giapponesi ci appaiono incoerenti e irrazionali. A volte sembrano spiegabili come una sorta di idealismo fino agli estremi del fanatismo, altre volte come concrete fino al limite dello strumentalismo.
Entrambi questi elementi sono presenti e inscindibili. L'individuo giapponese è essenzialmente un idealista, crede nel progresso, nell'armonia della società, nei valori della bellezza, ma il suo comportamento è concreto e pragmatico.
Questa difficoltà di comprensione è un problema tutto occidentale. Finché si useranno le categorie del pensiero occidentale, e soprattutto il sistema di divisioni e distinzioni, tutto del mondo giapponese ci apparirà bizzarro come il "paese delle meraviglie". Ma al suo interno è del tutto coerente, spesso più delle società occidentali.
Bisogna decidere se penetrare in questo mondo o restare nel nostro. Non si tratta soltanto di un problema scientifico, ma di un atto di coraggio. Ci si sarà accorti che stiamo entrando nella struttura del pensiero giapponese proprio usando la razionalità giapponese, eliminando le distinzioni e le dicotomie del pensiero occidentale. Stiamo smontando il mondo così come è stato costruito dagli occidentali e lo ricostruiamo alla maniera giapponese.
Crediamo che finora l'incertezza abbia frenato gli studiosi occidentali che hanno tentato di spiegare la società giapponese. Quella paura che prenderebbe chiunque davanti all'ignoto e alla sensazione di perdere tutti i punti di riferimento. Così questi occidentali hanno analizzato la società giapponese con le categorie del pensiero occidentale, e non c'è da meravigliarsi dunque se il risultato è stata una totale incomprensione.

Note

1. Cfr. Weber, Max, La sociologia delle religioni, UTET, Torino, 1997.
2. Platone è il più illustre accusatore di questo malcostume: "[...] non sono capaci di distinguere nei suoi aspetti l'argomento trattato e d'indagarlo a fondo, ma cercano di contraddire la tesi avversa riducendo la questione a pura terminologia [...]". Platone, La Repubblica, Laterza, Bari, 1997, p. 309, vv. 445a.
3. Cfr. Weber, Max, Il lavoro intellettuale come professione, Einaudi, Torino, 1948.
4. Lafcadio Hearn (1850-1904) parlava della "[...] enorme difficoltà nel percepire e comprendere ciò che è sotto la superficie della vita giapponese". Egli riteneva che fosse impossibile "[...] prima di almeno cinquant'anni, scrivere un testo che raffiguri il Giappone dall'interno, storicamente e socialmente, psicologicamente ed eticamente". Hearn, Lafcadio, Japan: an attempt at interpretation, Tuttle, Tokyo, 1959, p. 1.
5. Si leggano, per esempio, i lavori di Emile Durkheim, Marcel Mauss, Lévy-Bruhl, Bronislaw Malinowski, Claude Lévi-Strauss e Franz Boas. La religione viene considerata dagli antropologi all'interno del sistema sociale ed economico, e sempre in relazione al sistema complessivo di credenze.
6. Yoshida, Kenko, Tsurezuregusa, Koten Bunko, Tokyo, 1959.
7. Corradini, Piero, Il Giappone e la sua storia, Bulzoni, Roma, 1999, pp. 442-443.
8. I dizionari consultati sono: Daiyamondo kokugojiten (Dizionario delle lingua giapponese Diamond), Shubun, Tokyo, 1997; Gakushuukanjijiten (Dizionario dei kanji), Shogakukan, Tokyo, 1972; Denshijiten Canon IDX-9500 (Dizionario elettronico compilato in collaborazione con l'editore Gakken).
9. Cfr. Popper, Karl e Eccles, John, L'io e il suo cervello, Armando, Roma, 1981
10. In un interessante saggio (in lingua giapponese), il sociologo Hashizume discute le differenze fra pensiero filosofico occidentale e pensiero buddhista. Hashizume ritiene che il pensiero occidentale sia profondamente diverso da quello giapponese, e cerca nella filosofia di Wittgenstein una alternativa paragonando il gioco linguistico agli esercizi kouan dei monaci buddhisti. Questo audace tentativo mette in luce le difficoltà e le diversità fra il pensiero occidentale e il pensiero giapponese. Tanto che Hashizume interpreta a suo modo Wittgenstein, fino ad affermare, in modo forzato, che il pensiero di Wittgenstein è stato ripudiato dagli occidentali perché si opponeva alla tradizione cristiano-giudaica. Cfr. Hashizume, Daisaburo, Bukkyo no gensetsu senryaku, in "Gendaishiso", numero speciale voll.13-14, Seidosha, Tokyo, 1985, pp. 272-291.
11. Rodari, Gianni, Grammatica della fantasia, Einaudi, Torino, 1973. pp. 102-106. La citazione di Rodari non è arbitraria. Gli studiosi giapponesi di italianistica considerano con la massima stima il lavoro di Rodari. A tale proposito è interessante leggere l'edizione giapponese della Grammatica della fantasia: Kubota, Tomio (a cura di), Fantajii no bunpo, Chikuma Shobo, Tokyo, 1978.
12. Moravia, Alberto,Viaggi. Articoli 1930-1990, Bompiani, Milano, 1994. Importanti anche le osservazioni di Italo Calvino nel suo viaggio in Giappone: Calvino, Italo, Collezione di sabbia, Mondadori, Milano,1994, pp. 167-201.
13. L'esempio ci è stato suggerito da una allieva del linguista giapponese Kori Shiro.
14. Weber, Max, La sociologia delle religioni, op. cit., p. 541.
15. Ibidem, p. 540.
16. Benedict, Ruth, Il crisantemo e la spada, Rizzoli, Milano, 1991, p. 131-132.
17. L'importanza del nihonjinron ci fu segnalata dal sociologo Yoshino Kosaku alla conferenza "Japanese Culture" tenutasi a Tokyo presso il Ministero degli Affari Esteri (4 settembre 1998).

Romanzo di Ogawa Ito

Un romanzo di Ogawa Ito ha avuto la fortuna di essere tradotto e pubblicato anche in Italia. Da poche settimane si trova sugli scaffali delle migliori librerie. Ecco le indicazioni bibliografiche:

Ogawa Ito , Il ristorante dell'amore ritrovato, trad. it. di Gianluca Coci, Neri Pozza Editore, Vicenza, 2010, 224 pp., 15 euro.

La storia narra le vicende di una cuoca giapponese che si intrecciano con bizzarre storie d'amore.

Cristiano Martorella

martedì 8 giugno 2010

Crisi economica giapponese

La crisi economica giapponese cominciò a essere avvertita nel 1991, e poi esplose nel 1992 causando l'avviamento di un ciclo recessivo e negativo durato decenni. Alla luce della crisi economica attuale, è interessante rileggere il mio articolo Keizaiteki kiki scritto in proposito. Infatti l'articolo è utile per comprendere come l'attuale crisi provenga da lontano e sia stata generata da una applicazione di sconsiderate teorie economiche che non tengono in considerazione la storia, le condizioni e lo sviluppo concreto dei paesi.



Keizaiteki kiki. La crisi economica giapponese
di Cristiano Martorella

2 dicembre 2001. L’espressione keizaiteki kiki (letteralmente crisi economica) è pienamente adeguata a descrivere la storia giapponese dell’ultimo decennio del XX secolo.

Dopo quasi mezzo secolo di crescita economica a livelli elevati, il Giappone conobbe una grave e inaspettata recessione agli inizi degli anni ’90. Tra il 1950 e il 1973 l’economia crebbe al tasso medio del 10% annuo, raddoppiando la propria dimensione ogni sette anni (crescita elevata, definita in giapponese koudo seichou). Intorno al 1974-1975 vi fu un drastico rallentamento provocato dalla grave crisi petrolifera internazionale. Superato questo breve periodo, la crescita riprese a buoni ritmi. Nel 1986 vi fu il fenomeno della bubble economy, una speculazione sulle aree immobiliari e il mercato azionario che arricchì tantissimi ma creò diverse anomalie. Infatti nel 1991 si manifestò la crisi che portò a un tasso di crescita di appena lo 0,1% nel 1993.

In un primo momento le autorità giapponesi sottovalutarono la crisi, negando anche che si trattasse di una recessione profonda e illudendosi che fosse un momentaneo rallentamento. I governi giapponesi pensarono di poter invertire il trend negativo con qualche operazione di aggiustamento, dimostrando una miopia considerevole. Tra il 1992 e il 1995 furono applicati diversi pacchetti economici, tutti inefficaci. Queste politiche economiche non potevano avere effetto perché paradossalmente erano la causa della recessione. Il finanziamento pubblico indiscriminato aveva creato enormi debiti e messo in crisi il settore finanziario gettando le maggiori banche in un gorgo che le trascinava inesorabilmente al fallimento.

La totale incomprensione della situazione economica da parte della classe dirigente si palesava in imbarazzanti silenzi. Si dovette aspettare l’elezione nel 2001 di Koizumi Jun’ichiro per sentire delle parole chiare sulla crisi giapponese. Il premier non alimentò più le false illusioni e dichiarò che la gravità della situazione imponeva sacrifici per tutti. Koizumi prometteva anche una serie di riforme che avrebbero cambiato drasticamente l’assetto strutturale dell’economia giapponese. Riforme auspicate anche all’estero e che facevano identificare la politica di Koizumi con la tendenza neoliberista di molti paesi occidentali. Ma anche le previsioni di Koizumi si rivelarono eccessivamente ottimiste nonostante il suo atteggiamento realista e pragmatico. Ciò che stava accadendo in Giappone era molto grave e dimostrava ancora una volta quanto economisti, sociologi e analisti sapessero ben poco del mondo che studiavano. Intanto non si era tracciato un quadro interpretativo del fenomeno. Sui giornali di tutto il mondo si parlava di crisi economica giapponese senza specificarne le modalità.

Abbiamo detto che le manovre economiche dei governi giapponesi fra il 1992 e il 1995 non furono la soluzione, ma favorirono la continuazione della crisi. La crisi economica giapponese non fu soltanto causata dall’esplosione della bolla speculativa degli anni ’80. Ogni tipo di speculazione arricchisce qualcuno a scapito di qualcun altro. Ma questo genere di deformazione trova il modo di essere riequilibrata in breve tempo all’interno di un’economia sana. Se non fosse così, il sistema delle borse internazionali sarebbe fallito in pochi anni. Una crisi che perdurava da più di un decennio non poteva essere definita come il riflesso di una speculazione. In un sistema economico integrato come quello giapponese, finanza e apparato statale lavoravano insieme su programmi di lungo termine. Questo genere di politica economica era in passato orchestrata dal MITI (poi divenuto METI), il Ministero del Commercio Estero e dell’Industria. I finanziamenti alle imprese erano operati su criteri di fiducia, in base a credenziali molto difficili da definire in termini tecnici e legate maggiormente a vincoli relazionali (spesso determinati in modo personale e umano).

La seconda particolarità dell’economia giapponese era costituita dagli straordinari attivi dovuti all’esportazione. Questo significa, come contraltare, che il mercato interno del Giappone è insufficiente a coprire in modo discreto l’offerta dell’industria nipponica. E questo non deve sembrare paradossale per un paese considerato come la civiltà del consumismo. In realtà si tratta di uno stereotipo che non tiene presente i fattori materiali e geografici. Le risorse di spazio in Giappone sono estremamente limitate per la presenza di aree montuose e boschive (le quali occupano il 75% del territorio), e che i giapponesi preferirebbero conservare integre, non soltanto per motivi ambientalisti, ma per ragioni storiche e pratiche. Lo sviluppo urbano negli ultimi secoli è avvenuto lungo le coste. Ripensare la geografia urbana del Giappone per conquistare i terreni interni e montuosi da riconvertire all’edilizia sarebbe un impegno titanico (e vano) per creare collegamenti, disboscare, cementificare. La mancanza di risorse naturali ha decretato una vocazione all’esportazione di prodotti tecnologici, un bene che i giapponesi dimostrarono con eccellenza di saper realizzare. Non si deve però credere a un mito tecnologico confondendo il primato dei giapponesi nel settore come una facoltà innata. Ciò provocherebbe confusione, associando l’idea della tecnologia elettronica a una specie di antropologia culturale. E sarebbe un torto arrecato ai giapponesi stessi che si impegnarono fino allo stremo, con enormi sacrifici, per costituire uno stato moderno e competitivo alla pari delle maggiori potenze occidentali.

La tecnologia giapponese non era il prodotto di una semplice applicazione delle tecniche occidentali. Il Giappone non aveva le risorse dell’Impero Britannico, né della Germania, e quanto meno degli Stati Uniti, paese che poteva vantare giacimenti petroliferi e filoni auriferi. La tecnologia non può svilupparsi senza risorse energetiche e il Giappone partiva con questo handicap gravoso. Gli intellettuali giapponesi, come ad esempio Fukuzawa Yukichi (1835-1901), erano pienamente consapevoli dei limiti imposti al loro paese. L’unica risorsa che il Giappone possedeva in abbondanza, accumulata in secoli di storia, era una volontà ferrea, il seishin. Quello stesso seishin (spirito di volontà) che viene rimproverato ai giapponesi attuali come un tratto caratteriale antiquato e retrogrado, caratteristica e retaggio di una cultura samuraica.

Lasciando da parte questo genere di speculazioni e ritornando all’economia, possiamo riconoscere l’applicazione di uno spirito illuminista nella società giapponese dell’Ottocento che diede l’avvio all’ascesa del capitalismo giapponese. Lo spirito illuminista europeo fu l’anima vibrante dell’economia del XVIII e XIX secolo: il concetto di laissez faire, l’idea di un mercato internazionale, il riconoscimento del valore aggiunto, e soprattutto una società concepita sul lavoro. Si passava dall’idea contadina della terra come bene assoluto, all’idea moderna del lavoro come produzione di beni. Un cambiamento epocale. Molti intellettuali giapponesi, influenzati ancora dal seishin, riconobbero nelle idee superiori dell’Illuminismo un principio da perseguire con tenacia, con volontà ferrea. La modernità era considerata un’ideale da tramutare nella società ad ogni costo. Nakae Chomin (1847-1901) tradusse il Contratto sociale di Rousseau, Fukuzawa Yukichi (1835-1901) scrisse Gakumon no susume (Incoraggiamento al sapere), Mitsukuri Rinsho (1847-1897) tradusse il codice civile francese. I risultati si fecero sentire. La riforma del 1871 eliminò le vecchie classi sociali, i privilegi e le restrizioni. Con lo shimin byodo (parità delle quattro categorie), il 99% della popolazione si trovò istituzionalmente allo stesso livello. Il Giappone fu il primo paese asiatico a dotarsi di una costituzione (1889). I paradossi della nazione tramutarono lo svantaggio in una occasione straordinaria.

La debolezza del paese era evidente a tutti, dai cittadini alle classi dirigenti. Ciò che accade comunemente in situazioni simili, è quello spostamento d’interessi del governo verso la conservazione del proprio potere a discapito della collettività. Una tendenza egoistica teorizzata in parte da Otto Hintze. Cosa che d’altronde molti storici attribuiscono anche allo stesso Giappone della Restaurazione Meiji. Ma l’innesto delle idee illuministe nella società giapponese ebbe un effetto inaspettato e sotterraneo. Il periodo Edo (1600-1867) aveva profondamente cambiato i rapporti di forza fra le classi, a favore di una emergente borghesia. L’arrivo delle idee illuministe fu come gettare benzina sul fuoco. Il Giappone era povero di risorse materiali, ma particolarmente ricco di risorse intellettuali. L’Illuminismo alimentava la fiducia nella ragione e nelle sue capacità. I politici giapponesi credettero di poter battere l’Occidente usando l’intelligenza e, in maniera metaforica, accettarono nel loro pantheon di divinità scintoiste anche la dea dei lumi. L’espressione "toyo dotoku seiyo geijutsu" (morale orientale e tecnica occidentale) può essere interpretata anche come "intelligenza" giapponese nell’applicazione del sapere. Erano infatti le idee illuministe che affermavano l’universalità della ragione e il relativismo delle culture. La scienza non era dunque una prerogativa culturale europea.

L’economia giapponese del XIX e XX secolo si sviluppò quindi come un’economia della concertazione, di un tacito contratto sociale sottoscritto da tutti i cittadini: uno stato economicamente più forte per il bene di tutti. Quando questo modello si dimostrò vincente nel XX secolo, molti intellettuali giapponesi si accanirono per dimostrare le origini della coesione sociale giapponese nell’applicazione dei principi confuciani. Primo fra tutti Morishima Michio, autore di Why has Japan Succeeded? Tutto ciò lascia perplessi. La necessità ideologica di creare una spiegazione orientale alla storia economica giapponese tentava di negare come fosse stato lo spirito illuminista a innescare la scintilla del capitalismo giapponese. Il confucianesimo è la forma di pensiero conservatore più stabile che sia stata formulata. Confucio affermava: "Io non creo, seguo la tradizione" (I dialoghi, VII, 1). Il confucianesimo è funzionale al mondo contadino, e notevolmente in contraddizione con la modernità. I giapponesi non potevano ammettere d’aver applicato i principi illuministi degli occidentali in una società influenzata da altri fattori, come ad esempio il pensiero buddhista, una religione che ridimensionava le tendenze individualiste. Anzi, volevano negarlo, facendo credere d’aver usato soltanto le tecniche degli occidentali (wakon yosai) e non il loro spirito. In realtà la società giapponese era una creazione totalmente nuova e originale che non poteva essere attribuita né alla tradizione orientale né alla scienza occidentale. Era qualcosa di completamente nuovo. Gli intellettuali, con l’appoggio della classe politica, avevano creato nel periodo Meiji (1868-1912) una creatura simile al mostro descritta nel romanzo Frankenstein di Mary Shelley. Dal laboratorio Giappone era uscita una creatura composta di pezzi diversi: principi illuministi, tecniche occidentali, spirito buddhista, vitalismo shintoista, regole confuciane. Dunque non bisogna meravigliarsi se oggi, nel XXI secolo, nessuno è in grado di spiegare i fenomeni economici giapponesi. Il mostro è terribile nella sua magnificenza.

Il Giappone è entrato in una profonda crisi economica per ragioni intrinseche del suo sistema, le stesse ragioni che furono motivo di riscossa e ascesa. Sarebbe sbagliato credere, come fa Vittorio Volpi, che il sistema giapponese presenti delle anomalie anacronistiche dovute a un mancato sviluppo liberale della sua economia. Volpi considera il modello occidentale come panacea di tutti i mali. Ma dimentica quanto i giapponesi siano stati più occidentali di chiunque altro nell’applicazione dei principi illuministi. Una liberalizzazione economica sfrenata e selvaggia non porterebbe soltanto vantaggi, ma anche storture ragguardevoli. Ad esempio, l’abbandono in mano a privati privi di scrupoli delle centrali nucleari, con rischi incalcolabili (come segnalato da un articolo di Pio d’Emilia).

La situazione giapponese è delicata, perciò bisogna essere cauti nelle affermazioni. A volte le crisi economiche si sono tramutate in svolte autoritarie, come nel caso della Repubblica di Weimar. Se non vogliamo creare l’emersione di un neoimperalismo giapponese, bisogna eliminare questo clima di contrapposizione che trasforma il Giappone in un caso patologico. In un mondo globalizzato i problemi vanno affrontati insieme, e nessuno deve ergersi a maestro sull’altro.

Avendo tracciato un piccolo quadro storico, possiamo meglio capire cosa è accaduto negli anni ’90. Le banche giapponesi, come era prassi consolidata, avevano finanziato le imprese anche quando le condizioni non erano favorevoli. Rispetto al passato, esistevano però una serie di fattori concomitanti che non permettevano più una simile procedura. Soprattutto la crisi mondiale all’inizio degli anni ’90, la quale colpì gravemente gli Stati Uniti (che ne uscirono grazie all’amministrazione Clinton) e in seguito le "tigri asiatiche" (Corea del sud, Singapore, Taiwan, Hong Kong). Il Giappone era troppo dipendente dalle esportazioni, e le difficoltà dei suoi clienti stranieri ebbero gravi ripercussioni. L’industria nipponica era sana, produttiva, altamente competitiva, ma la mancanza di vendite provocate dalla crisi che aveva attanagliato i paesi stranieri ebbe un effetto superiore alle aspettative. Le banche che avevano sostenuto e coperto i passivi delle imprese furono trascinate in una spirale perversa. Le imprese fallivano e i debiti non venivano riscossi. In breve tempo il settore bancario giapponese entrò in crisi. Gli istituti bancari chiudevano uno dopo l’altro. Sembrava un collasso inconcepibile. La situazione si stabilizzò dopo l’intervento del governo a sostegno del settore finanziario. Ma la situazione era ormai compromessa. C’erano però aspetti paradossali: il Giappone era il maggior creditore fra i paesi del mondo. La sua crisi era dovuta soltanto a una concomitanza di eventi che erano particolarmente significativi e dannosi per il suo sistema altamente integrato (che crea quindi dipendenze e relazioni forti fra i diversi settori economici).

Omae Ken’ichi (trascritto anche Ohmae Kenichi), nel suo Il continente invisibile, ci presenta una storia della crisi economica giapponese che fornisce nuovi elementi interpretativi. Secondo Omae, negli anni ’90 sarebbero stati gli Stati Uniti a imporre le scelte economiche dei giapponesi. Egli denuncia che i sostenitori americani del libero mercato sono gli stessi che chiedono ai governanti giapponesi di ricostruire l’economia nipponica attraverso investimenti statali. Tra il 1998 e il 2000, il governo statunitense ha chiesto al governo giapponese di abbassare a zero i tassi d’interesse, di ridurre la pressione fiscale, aumentare la spesa pubblica e salvare le banche. Omae ritiene che la spesa pubblica sia la causa della crisi e che gli Stati Uniti stiano chiedendo al Giappone manovre economiche che impediscano la ripresa.

Uscirà il Giappone dalla crisi che l’ha attanagliato? E in quale modo? Non spettano a noi queste risposte. Sarebbe estremamente presuntuoso pensare di poter parlare per gli altri. Sarà il popolo giapponese a fornire le risposte alle domande che ci siamo posti. Possiamo soltanto immaginare che le risorse che i giapponesi potranno sfruttare sono quelle che abbiamo già individuato: la creatività e l’ingegno intellettuale.



Bibliografia

Ito, Takatoshi, L’economia giapponese, EGEA, Milano, 1995.
Morishima, Michio, Why has Japan Succeeded?, Cambridge University Press, Cambridge, 1982.
Omae, Ken’ichi [Ohmae Kenichi], Il continente invisibile, Fazi Editore, Roma, 2001.
Halliday, Jon, A Political History of Japanese Capitalism, Pantheon Books, New York, 1975
Takaiya, Taichi, Taihen na jidai, Kodansha, Tokyo, 1998.
D’Emilia, Pio, Aiuto! Il nucleare è in mano ai kamikaze, in "Sette", 30 novembre 2000.
Volpi, Vittorio, Un Big Bang alla giapponese, in "Italia Giappone Oggi", anno XIV, n.56, novembre 1996.
Yanaga, Chitoshi, Big Business in Japanese Politics, Yale University Press, New Haven and London, 1969.

domenica 6 giugno 2010

Kisei kanwa

In questi giorni si discute molto di nuove regole per il mercato economico, dimenticando quanto si è detto poco tempo fa sull'argomento. Infatti ciò che si è sostenuto per anni è stato l'esatto contrario. Per questo motivo ripropongo un mio articolo pubblicato nel 2002, sulla questione delle riforme in Giappone. Trovo che sia importante non perdere la memoria degli eventi storici, anche recenti.



Kisei kanwa, la deregulation
Liberismo e libero mercato nell’economia giapponese
di Cristiano Martorella

20 dicembre 2002. Deregulation si dice in giapponese kisei kanwa. Un altro modo per dire deregulation è kisei teppai. C’è una leggera differenza fra le due espressioni. Kisei significa regolamentazione. Kanwa è un’attenuazione, mentre teppai è un’abolizione. Dunque i giapponesi preferiscono tradurre deregulation con kisei kanwa che ha il senso di una diminuzione delle regole, così come nel significato originale del termine deregulation (deregolamentazione).
Prima di trattare l’argomento in questione è necessaria una premessa. La società e l’economia giapponese hanno una propria specificità che si è realizzata attraverso il particolare sviluppo storico e culturale del paese. Tuttavia questa specificità non impedisce di inquadrare il Giappone in un contesto internazionale secondo le tematiche universali della politica e della sociologia. D’altronde il contrasto fra particolarità e universalità è un problema filosofico ancora dibattuto. Eppure nessuno studioso serio metterebbe in dubbio l’efficacia del metodo comparativo. La comparazione è uno strumento storiografico che serve a cogliere corrispondenze e differenze specifiche (1). Fu lo storico Noro Eitaro (1900-1934), autore di Nihon shihonshugi hattatsushi (Storia dello sviluppo del capitalismo giapponese) che dimostrò l’utilità del taglio comparativo capace di trattare i fenomeni giapponesi facendo uso di un linguaggio universale. E non possiamo dimenticare che il più autorevole sociologo, Max Weber (1864-1920), fu un tenace sostenitore nonché teorico e utilizzatore del metodo comparativo. Secondo Weber la spiegazione causale dei fenomeni culturali concerne la relazione individuale fra fenomeni storici e non la sussunzione di questi dentro un sistema di leggi generali, come avviene invece per le scienze naturali. Così si salva il carattere oggettivo e scientifico dell’indagine senza precludere la possibilità di stabilire relazione esplicative tra i fenomeni storici. Dunque non c’è motivo di dubitare della validità del metodo storico comparativo.
Il liberismo è la teoria economica che sostiene il vantaggio personale come unico e autentico stimolo per l’uomo ad operare in economia. Pertanto il sistema economico più consono sarebbe la libertà d’impresa o libera iniziativa. A livello macroeconomico il liberismo si esprime eliminando il protezionismo, le barriere doganali, i vincoli amministrativi, gli ostacoli tariffari, e favorendo viceversa il libero mercato. Inoltre sostiene la lotta contro i monopoli in favore della libera concorrenza.
Al liberismo possono essere associati i nomi di importanti economisti: Adam Smith, David Ricardo, William Jevons, Carl Menger, Vilfredo Pareto, Friedrich August Hayek, Milton Friedman e Maurice Allais.
Negli anni ’80 del XX secolo la dottrina liberista ebbe due eccezionali interpreti nel presidente statunitense Ronald Reagan e nel premier britannico Margaret Thatcher. Essi operarono su vasta scala e in modo intensivo proclamando la fiducia nel libero mercato. Margaret Thatcher smantellò lo stato assistenzialista (welfare state) che era causa di un forte indebitamento pubblico. La politica economica di Reagan chiamata "reaganomics" era fondata sulla diminuzione della pressione fiscale sulle imprese per favorire gli investimenti dei privati.
La deregulation (deregolamentazione) è una politica mirante alla trasformazione delle regole alle quali debbono sottostare le imprese in modo da renderle più libere di agire e rinforzare così la loro concorrenzialità. La deregulation fornisce anche la possibilità alle imprese private di entrare in settori precedentemente controllati dallo stato (per esempio i trasporti, le telecomunicazioni, i servizi pubblici).
Il premier Koizumi Jun’ichiro, eletto nel 2001, fu il primo politico giapponese a includere nel suo programma riforme liberiste che includevano una deregulation del mercato del lavoro. Ciò sollevò le preoccupazioni di un ampio strato della popolazione ormai abituata al posto fisso. Gli economisti giapponesi si pronunciarono senza riserve sulla questione della deregulation. Secondo Ohmae Kenichi (trascritto anche Omae Ken'ichi) il Giappone ha un debito pubblico insostenibile. Per superare questa impasse sarebbe necessario un batan (colpo). Bisognerebbe eliminare le banche e gli istituti finanziari in condizioni disastrate e accettare un elevato tasso di disoccupazione.

"Inoltre il governo giapponese dovrebbe ammettere la necessità di entrare in un lungo tunnel. Deregolamentando l’economia e lasciandosi catapultare nel tunnel, il Giappone potrebbe dare impulso alla produzione di nuova ricchezza. […] Perché il piano funzioni bisogna che il governo accetti l’idea di un aumento della disoccupazione fino a un tasso del 7-8% (forse anche con punte di oltre il 10%), che crea mobilità nel mercato del lavoro. […] In tutta onestà, la nostra famosa rete di sicurezza per i dipendenti garantisce troppa sicurezza, al punto che nessuno si muove." (2)

Questa posizione a favore della deregulation ha trovato numerosi oppositori in Giappone, in particolare gli economisti Tachibanaki Toshiaki e Ito Makoto che hanno indicato nella svolta liberista giapponese la causa delle crescenti disuguaglianze economiche e del disagio sociale.

"In ogni modo, attraverso questo processo di riforma economica e di ristrutturazione politica che ha l’obiettivo di creare un mercato sempre più competitivo all’interno di un sistema neoliberista, la società giapponese sta rafforzando la sua natura capitalistica di paese dipendente dalla grande impresa: una nazione che, per realizzare questi obiettivi, tende a opprimere le masse di lavoratori, combinando un mercato del lavoro sempre più competitivo a un sindacato sempre più debole. E se è vero che nei periodi di grande crescita il Giappone ha mostrato una tendenza verso un sistema di eguaglianza sociale economica, è anche vero che la tendenza si è invertita spostandosi verso un modello sempre più sperequato a vantaggio della popolazione ricca, della grande impresa, delle grandi banche più importanti e delle altre istituzioni finanziarie. In una ricerca statistica del 1998 Tachibanaki rivelava che l’indice di disuguaglianza nella distribuzione del reddito in Giappone era cresciuto rapidamente tra gli anni ’80 e ’90, e aveva superato sorprendentemente quello degli Stati Uniti. Questa trasformazione sociale del Giappone verso una crescita delle disuguaglianze sarà controproducente per la ripresa economica, anche se può essere considerato il risultato paradossale della riuscita ristrutturazione di un’economia capitalistica di mercato competitiva." (3)

Ito Makoto fornisce una interpretazione opposta al punto di vista di Ohmae Kenichi, ma è importante notare come egli riconosca l’esistenza della deregulation in Giappone. Entrambi gli autori descrivono la tendenza dell’economia giapponese al liberismo, ma mentre Ito Makoto la condanna, Ohmae Kenichi l’incoraggia. Un altro economista favorevole alla deregulation e al liberismo è Noguchi Yukio. Egli è un convinto assertore della necessità di riforme economiche eliminando l’impiego a vita, i salari in relazione all’anzianità di servizio e tutte quelle protezioni che impediscono la competizione. Dal punto di vista finanziario Noguchi critica la finanza pubblica centralizzata imperniata sulle imposte indirette e la protezione dei settori a bassa produttività. Insomma, egli propone la ricetta neoliberista di Reagan e Thatcher: chi non è in grado di sostenere la concorrenza deve fallire ed essere espulso dal mercato. Ogni tipo di assistenzialismo è eliminato. Noguchi Yukio è anche favorevole alla globalizzazione che considera un’occasione per competere sul libero mercato internazionale.
Non è facile destreggiarsi fra i diversi sostenitori delle teorie economiche. In questo senso sono utili le considerazioni di Sasaki Tadao che condanna la scellerata politica monetaria degli anni ’90.

"All’origine dell’inasprimento della crisi è il fallimento delle politiche economiche, ma è stata la ricetta monetarista che ha portato al restringimento dei cordoni della spesa pubblica, al rialzo delle tasse sui consumi di due punti percentuali nel 1997 […] Burocrati ed economisti della corrente maggioritaria, nel periodo successivo allo scoppio della bolla nel 1990, ignorarono l’opinione che fossero necessarie riparazioni di grande portata per i bad loans [prestiti inesigibili, ndr] a causa del carattere della crisi, determinata dal crollo dei prezzi delle attività finanziarie, e sostennero che fosse sufficiente proseguire la deregolamentazione mantenendo politiche di stimolo congiunturali operanti sugli aspetti di flusso dell’economia. L’idea che l’avvicinamento a un mercato ideale porti al rafforzamento dell’economia giapponese non è altro che ideologia dogmatica." (4)

Sasaki Tadao individua il nocciolo della questione. La fiducia nel libero mercato sembra un atto di fede piuttosto che la propensione razionale allo scambio utilitario (dottrina del liberismo di Adam Smith). Se la teoria liberista pone come condizione imprescindibile la libera concorrenza, possiamo porre lo stesso liberismo nel mercato delle idee economiche. Il fallimento delle politiche liberiste e della deregulation comporterà inevitabilmente il loro abbandono, altrimenti sarà il loro successo a decretarne la validità.

Note

1. Cfr. Hintze, Otto, Storia, sociologia, istituzioni. Introduzione di Giuseppe Di Costanzo. Morano Editore, Napoli, 1990, p.8.
2. Ohmae, Kenichi, Il continente invisibile, Fazi Editore, Roma, 2001, p.260.
3. Ito, Makoto, La crisi giapponese, in "La rivista del manifesto", n.19 luglio-agosto 2001.
4. Cfr. Collotti Pischel, Enrica (a cura di), Capire il Giappone, Franco Angeli, Milano, 1999, p.345.

Bibliografia

Drucker, Peter, La società post-capitalistica, Sperling & Kupfer, Milano, 1993.
Hammer, Michael e Champy, James, Ripensare l’azienda, Sperling & Kupfer, Milano, 1994.
Jenkins, Clive e Sherman, Barrie, The Collapse of Work, Eyre Methuen, London, 1979.
Ito, Makoto, The World Economic Crisis and Japanese Capitalism, Macmillan, London, 2000.
Rifkin, Jeremy, La fine del lavoro. Il declino della forza lavoro globale e l’avvento dell’era post-mercato, Arnoldo Mondadori, Milano, 2002.
Tachibanaki, Toshiaki, Nihon no keizai kakusa, Iwanami shoten, Tokyo, 1998.
Takahashi, Makoto, Toyota breaks new ground with cost-cutting system, in "The Nikkei Weekly", 23 settembre 2002, p.10.
Noguchi, Yukio, Senkyuhyakuyonjunen taisei, Toyo Keizai Shinposha, Tokyo, 1995.
Ohmae, Kenichi [Omae, Ken'ichi], Il continente invisibile. Oltre la fine degli stati-nazione: quattro imperativi strategici nell’era della Rete e della globalizzazione, Fazi Editore, Roma, 2001.
Ohmae, Kenichi [Omae Ken'ichi], Il mondo senza confini: lezione di management nella nuova logica del mercato globale, Il Sole 24 Ore, Milano, 1991.

venerdì 4 giugno 2010

Hatoyama Yukio si dimette

Il premier giapponese Hatoyama Yukio ha annunciato le sue dimissioni, mercoledì 2 giugno, dopo che era stato circa otto mesi in carica. La sua popolarità era precipitata al 24%, e le dure polemiche scaturite dalla mancata chiusura della base statunitense di Futenma nell'isola di Okinawa, lo avevano fortemente indebolito. La situazione era precipitata dopo le dimissioni del ministro delle Pari opportunità, Fukushima Mizuho, leader del Partito Socialdemocratico. Contestualmente il Partito Socialdemocratico (Shakaiminshuto) annunciava di ritirarsi dal governo.
La notizia non è certamente rassicurante. Il Giappone si trova ancora in una critica situazione economica, e la ripresa è piuttosto debole. I mercati non accolgono bene l'evento. L'instabilità politica sta emergendo come un nuovo inaspettato problema per la società giapponese. Le ultime elezioni sembravano aver confermato una tendenza, e il consolidarsi di una coalizione politica, ma sembra che non sia affatto così. L'instabilità politica si presenta come un ulteriore problema per il paese del Sol Levante.
Cristiano Martorella