martedì 29 aprile 2008

La rivoluzione industriale giapponese

Alcune osservazioni sullo sviluppo industriale e tecnologico del Giappone. Articolo di Cristiano Martorella pubblicato dal sito Nipponico.com alla voce Shigoto.


Shigoto. Lavoro, qualità totale e rivoluzione industriale giapponese
di Cristiano Martorella

8 dicembre 2002. Si è scritto molto, forse troppo e in modo confuso, sulla qualità totale inserendo questo concetto in contesti spesso inopportuni (ad esempio la scuola) e mancando la comprensione del fenomeno autentico e affidandosi alla sua rappresentazione. Alcuni hanno sostenuto che i giapponesi avrebbero copiato come al solito dagli occidentali, ovvero dalle idee di Edwards Deming, il primo teorico della qualità totale. Questo è falso perché le intuizioni di Deming sono state accolte dai giapponesi e sviluppate in un modo che l’autore non avrebbe mai immaginato. Inoltre la qualità totale è divenuta nelle aziende giapponesi qualcosa di assolutamente contestualizzato alla situazione storica e culturale del paese, tanto da essere ancora oggetto di studio. E ciò risulta vero dall’osservazione delle difficoltà occidentali nell’imitare le tecniche giapponesi (1). Infatti i giapponesi usano il termine autoctono kaizen (miglioramento) in sostituzione del termine qualità totale, così da caratterizzare meglio la novità da loro apportata. E vedremo di quale rivoluzione si tratta.
Shigoto significa in giapponese lavoro. Ed è appunto il cambiamento nelle condizioni e nell’organizzazione del lavoro ad aver segnato lo sviluppo industriale e l’ascesa del capitalismo. Nella storia economica si indicano due rivoluzioni industriali avvenute in Europa. La prima avvenuta intorno al 1760 vide il passaggio dall’industria domestica alla fabbrica attraverso l’introduzione di nuovi macchinari (filatoio meccanico, macchina a vapore, laminatoio, etc.) e maturò nel periodo dal 1815 al 1840 grazie allo sfruttamento dell’energia termica ricavata dal carbone. La seconda rivoluzione industriale incominciò intorno al 1890 e fu favorita da una serie di innovazioni tecnologiche (il motore a combustione interna, il motore elettrico, etc.) e lo sfruttamento dell’energia elettrica e dell’energia termica ricavata dagli idrocarburi, indispensabili anche nella chimica. L’industria subì un’ulteriore trasformazione con l’introduzione della produzione a catena di montaggio di tipo fordista.
Fin qui abbiamo tracciato il quadro descritto nei libri di storia, ma esiste una storia che non è ancora ufficiale nonostante sia stata registrata da molti studiosi: la rivoluzione industriale giapponese.
La terza rivoluzione industriale avvenne intorno al 1974 con l’introduzione della produzione just in time e della qualità totale di tipo Toyota, e maturò grazie allo sfruttamento dell’informatica e delle tecnologie dei semiconduttori. La rivoluzione industriale giapponese segna anche il passaggio dalla società industriale alla società dell’informazione poiché integra i processi produttivi nel nuovo sistema sociale.
Così come le prime due rivoluzioni industriali avvennero per rispondere ai gravi periodi di crisi economica, anche la terza fu la risposta a una seria crisi, quella petrolifera del 1973. All’epoca il Giappone, a differenza degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica, non aveva nemmeno risorse petrolifere sul proprio territorio ed era in balìa dei rifornimenti stranieri. Non potendo eliminare questa dipendenza, gli industriali nipponici sollecitarono una ristrutturazione che permettesse la produzione anche in periodo di crisi. Il modello americano sul tipo di Henry Ford (1863-1947) fu abbandonato a favore del modello giapponese di Toyoda Kiichiro. Il concetto di lavoro (shigoto) fu rivisitato completamente.
Cominciamo con ordine stabilendo alcuni punti fondamentali per inquadrare quest’ultima rivoluzione industriale. Sono due i punti essenziali da ponderare:

- il rovesciamento della logica del marketing;
- la trasformazione dell’industria in un sistema informatico.

I sociologi hanno colto meglio il significato della rivoluzione industriale giapponese che era soprattutto concentrata nell’organizzazione del lavoro, e perciò sensibilmente trascurata dagli economisti attenti ai dati macroeconomici e dagli storici interessati alla cronaca. La comprensione riguardava piuttosto la psicologia sociale e le scienze sociali (2). I sociologi hanno dunque indicato quei cambiamenti nel lavoro che essi definiscono come avvento del postfordismo (altri chiamano questo nuovo modo di produrre come toyotismo, dal nome dell’azienda giapponese Toyota che lo introdusse per prima). Questi cambiamenti si articolano in diverse tecniche dell’organizzazione del lavoro. La qualità totale sostituisce la produzione in linea, basata sulla catena di montaggio, con le isole di produzione o circoli di qualità. I singoli lavoratori non sono specializzati in poche ed elementari mansioni ma hanno più mansioni e una capacità di controllo sul processo produttivo. Il controllo è infatti interno e autogestito dai lavoratori. Nell’organizzazione taylorista (3) del lavoro, il controllo era esterno e basato sulla divisione tra chi lavora e chi controlla il lavoratore. L’azienda diventa una rete. L’azienda rete si differenzia dall’azienda piramide perché privilegia la fase di vendita rispetto alla fase di produzione. I contatti diretti con la clientela assumono un ruolo preminente e l’innovazione proviene da chi lavora operativamente. L’innovazione è proposta dalla base, e non c’è un vertice che pianifica il lavoro. L’informazione e le comunicazioni sono orizzontali piuttosto che verticali. La produzione just in time (nel tempo opportuno) tiene presenti le richieste dei compratori e basa la produzione, per quantità e qualità, sulla domanda del mercato. Vengono abolite le scorte di magazzino e introdotta la flessibilità dei processi lavorativi.
Complessivamente queste innovazioni sono integrate in un sistema che rende possibile sia il rovesciamento della logica del marketing sia la trasformazione dell’industria in un sistema informatico. E ciò avviene necessariamente insieme perché soltanto una gestione integrata dell’informazione può permettere la soddisfazione dei requisiti della qualità totale prima enunciati. Il rovesciamento della logica del marketing significa porre la soddisfazione del cliente come primaria. Invece di tentare di convincere gli acquirenti, bisogna venire incontro alle loro esigenze e abbandonare la concezione della produzione di massa standardizzata. Ogni processo produttivo deve essere flessibile e capace di apportare cambiamenti e miglioramenti (kaizen). Questo può avvenire soltanto in una fabbrica capace di comunicare istantaneamente le informazioni sui processi e le condizioni della produzione. Gli strumenti per far ciò sono il kanban (cartello) e lo andon (pannello). Si tratta di mezzi molto semplici ed elementari che hanno dimostrato quanto l’organizzazione del lavoro fosse importante, e semplici innovazioni basate sulla comunicazione divenissero determinanti. L’introduzione delle nuove macchine informatiche elettroniche esalta e accelera questa tendenza abbattendo le vecchie logiche e i vecchi dispositivi.
La rivoluzione industriale giapponese ha così trasformato la fabbrica in un sistema informatico ed ha liberato l’uomo dal lavoro meccanico, trasformandolo in un supervisore dei processi produttivi. Ciò avviene in un periodo storico che vede il passaggio dalla società industriale alla società post-industriale. Questa svolta epocale sarà ben compresa quando il passaggio alla società dei servizi e dell’informazione sarà completato.


Note
1. Si è arrivati addirittura a negare i successi giapponesi attribuendo il merito alle metodologie occidentali presumibilmente copiate. Eclatante il caso di un articolo di "Business Week" decisamente propagandistico e falso. Cfr. Dawson, Chester et alii, The Americanization of a Japanese Icon, in "Business Week", 15 aprile 2002, pp.26-30.
2. Recentemente molti manuali di sociologia hanno inserito paragrafi sulle innovazioni imprenditoriali giapponesi. Cfr. Ungaro, Daniele. 2001. Capire la società contemporanea. Carocci, Roma, pp.50-61.
3. Cfr. Taylor, Frederick. 1952. L’organizzazione scientifica del lavoro. Edizioni di Comunità, Milano.


Bibliografia
Deming, Edwards. What Top Management Must Do, in "Business Week", 20 luglio 1981, pp.19-21.
Drucker, Peter. Getting Control of Corporate Staff Work, in "The Wall Street Journal", 28 aprile 1981, p.24.
Imai, Masaaki. 1986. Kaizen. La strategia giapponese del miglioramento. Il Sole 24 Ore, Milano.
Ishikawa, Kaoru. 1972. Guide to Quality Control. Asian Productivity Organization,, Tokyo.
Ishikawa, Kaoru. 1992. Che cos’è la qualità totale. Il Sole 24 Ore, Milano.
Ohno, Taiichi. 1993. Lo spirito Toyota. Il modello giapponese della qualità totale. Einaudi, Torino.
Pollard, Sidney. 1989. La conquista pacifica. L’industrializzazione in Europa dal 1760 al 1970. Il Mulino, Bologna.
Rifkin, Jeremy. 2002. La fine del lavoro. Il declino della forza lavoro globale e l’avvento dell’era post-mercato. Arnoldo Mondadori, Milano.
Taguchi, Genichi. 1991. Introduzione alle tecniche per la qualità. Franco Angeli, Milano.
Tanaka, Minoru. 1998. Il segreto del kaizen. Franco Angeli, Milano.

lunedì 21 aprile 2008

Borghesia giapponese

Una discussione critica delle interpretazioni della storia della borghesia giapponese. Articolo di Cristiano Martorella pubblicato dal sito Nipponico.com alla voce Burujoa.


Burujoa. La borghesia giapponese
Storiografia, ideologia e interpretazione
di Cristiano Martorella

24 luglio 2005. La parola giapponese burujoa è un gairaigo (termine d’origine straniera) derivata dal francese bourgeios e introdotto attraverso la saggistica socialista all’inizio del Novecento (1). Nella storiografia occidentale la borghesia giapponese è stata vittima di fraintendimenti e dissimulazioni che ancora oggi fanno sentire il loro peso. Addirittura la classe media (chusankaikyu) sembra sparita dai libri di storia per dare spazio a valorosi, quanto mai mitici, samurai. Per ripulire la narrazione degli eventi dalle mistificazioni che affliggono la storiografia, bisogna comprendere innanzitutto il pregiudizio ideologico che vizia ogni considerazione. L’idea di fondo è che il Giappone potesse imitare l’Occidente, pur senza possederne le strutture sociali, soltanto se ciò fosse stato imposto dai politici dall’alto. Insomma, questo è il teorema dello sviluppo dall’alto propugnato dalle classi politiche che ignora completamente la borghesia giapponese e la sua storia. Questo teorema risulta estremamente fuorviante quando applicato alla storia dell’economia del Giappone. Economia che non è nata dalla mente dei politici, come vorrebbero far credere alcuni manuali scolastici, ma è il risultato dell’opera di milioni di lavoratori, del loro ingegno e del loro spirito imprenditoriale. Al contrario, dal 1925 al 1945, la classe dirigente ha ritardato lo sviluppo dell’economia del Giappone concentrando le risorse sull’industria pesante e militare, cercando di ottenere le fonti di approvvigionamento attraverso le conquiste coloniali al posto del commercio, trascinando il paese in guerre impossibili da vincere. Dal 1993 al 2001 è stata la classe dirigente che ha preso provvedimenti tali da inasprire la crisi economica, aumentando il debito pubblico e peggiorando i debiti delle banche, oltre a rendersi protagonista di scandali per corruzione. Attribuire meriti a politici capaci di ogni ignominia richiede uno sforzo di immaginazione davvero disumano. Eppure la storiografia ufficiale abbonda di simili voli della fantasia. Il caso più famoso e significativo è rappresentato da Franco Mazzei, autorevole storico e docente dell’Università di Napoli. Nel XII volume de La storia (2) edito dal quotidiano "La Repubblica", egli ripresenta la consueta teoria dello sviluppo dall’alto attraverso il confucianesimo aristocratico, rigettando l’importanza del ruolo svolto dalla borghesia mercantile (chonin). Franco Mazzei nega il ruolo predominante della borghesia commerciale nello sviluppo capitalistico, insistendo sulla funzione dirigistica del governo Meiji, considerato il vero ispiratore della rivoluzione borghese e principale artefice del decollo dell’economia del Giappone nel XIX secolo (3).
In effetti manca da parte di Franco Mazzei la discussione delle differenti teorie, propendendo a favore della tesi dello sviluppo dall’alto soltanto in base a una preferenza personale. La quantità degli studi contro la teoria dello sviluppo giapponese diretto dall’alto è però enorme, e mina la credibilità di molti storici tuttora ancorati a vetuste narrazioni e interpretazioni fittizie. Sicuramente il più fiero oppositore alla concezione della rivoluzione borghese guidata dal governo è stato Claudio Zanier, autore di un volume fondamentale (4) che mostra e smonta gli errori dei colleghi. Eppure il suo lavoro, come tanti altri, è stato occultato e dimenticato perché troppo scomodo.
Claudio Zanier ricorda le importanti riforme politiche ed economiche avvenute durante il periodo Edo (1600-1867) che furono una efficiente opera di razionalizzazione (5). I governi Tokugawa, molto prima della riforma Meiji, avviarono un processo che permise la formazione di una struttura sociale borghese e del capitalismo mercantilista. Le riforme fondamentali dell’epoca Edo furono la formazione di un catasto nazionale, la riforma fiscale e il disarmo dei contadini. Inoltre si attuarono le condizioni per far prosperare l’economia di mercato attraverso due secoli di pace continua e il commercio. Questo processo si sviluppò spontaneamente perché non era affatto intenzione dei governanti Tokugawa di favorire la borghesia e gettare le basi per la nascita del capitalismo, forma economica completamente ignota ed estranea alla mentalità degli shogun. Eppure fu proprio in queste condizioni che la borghesia giapponese trovò l’ambiente adatto allo sviluppo. Ciò che si verificò, per molti versi, era in contrasto con le intenzioni dei Tokugawa. Essi si adoperarono per la netta divisione in quattro classi (shimin) costituite da guerrieri, contadini, artigiani e commercianti (shi, no, ko, sho). Tuttavia l’epoca Edo conobbe una notevole mobilità sociale, e la crescente importanza e influenza dei chonin (commercianti) convinse molti samurai a cambiare classe, scegliendo la vita del mondo degli affari. Caso emblematico fu Mitsui Takatoshi (1622-1694), fondatore dei negozi Mitsui, famoso per essere stato tra i primi a rinunciare al rango di samurai per diventare commerciante. Sicuramente rappresentò l’evento più importante, ma non era un caso isolato, al contrario era abbastanza frequente.
Questa mobilità sociale insieme al dinamismo dei commercianti che costituirono un’autentica cultura (Genroku bunka) alimentata da attori di teatro, musicisti, poeti e scrittori, fornisce la negazione assoluta dell’idea dello sviluppo dall’alto. Soprattutto è l’affermazione del valore e del ruolo della borghesia mercantile giapponese, divenuta poi borghesia imprenditoriale nel XIX secolo.
L’economia del Giappone dell’epoca Edo (1600-1867) attuò l’accumulazione di capitali e risorse necessari al decollo (take off) dello sviluppo nei secoli successivi. Ovviamente furono i commercianti ad essere protagonisti in questa fase. Piuttosto fu nell’era Meiji (1868-1912) che si evidenziarono le debolezze dell’economia del Giappone causate da una cronica mancanza di capitali. Questo problema del capitalismo senza capitale, era provocato anche dall’indebolimento della borghesia a favore dell’esercito, autentico antagonista e avversario del capitalismo, sostenitore e difensore della concezione rurale della società. La produzione fu concentrata a fini militari, e il commercio limitato escludendo i manufatti inutilizzabili per il conflitto. L’indebolimento della borghesia favorì l’accentramento di potere e la formazione di cricche economiche che impedirono il libero mercato e la concorrenza. Le guerre nascosero la distorsione dell’economia del Giappone, favorendo nello stesso tempo i discorsi di chi sosteneva l’unità nazionale per il conseguimento degli obiettivi militari. Da questa anomalia il Giappone uscì grazie a una radicale sconfitta che eliminò l’esercito e le sue pretese di controllo sulla società. Nelle condizioni di equilibrio e libero commercio del dopoguerra, la borghesia giapponese ebbe la possibilità di incentivare una sana attività imprenditoriale, contribuendo alla straordinaria crescita del Giappone, economia ormai liberata dai ceppi dell’isolamento e delle costrizioni militariste.
Questa lettura fa emergere quanto sia pericoloso sostenere l’idea di uno sviluppo guidato dall’alto dalla classe dirigente politica che è stata, in realtà, l’artefice delle distorsioni e disgrazie del Giappone. Mentre l’artefice della crescita economica, la classe media (chusankaikyu) o borghesia media, viene ignorata dalla storiografia.
Un’interpretazione altrettanto fittizia è quella di Vittorio Volpi (6) che sostiene l’esistenza di una crisi di identità del Giappone. Però a quale identità si riferisce Vittorio Volpi? Al Giappone dei samurai e delle geisha? Questa interpretazione del Giappone tradizionale non tiene presente dell’esistenza di una classe borghese fin dall’epoca Edo, ignorando completamente la storia. Credere che la cultura giapponese sia soltanto una cultura aristocratica è un errore madornale. Incredibile è che ancora in tanti continuino a sostenerlo.




Note
1. La traduzione del Manifesto Comunista (Kyosanto sengen) apparve nel 1904, ad opera di Sakai Toshihiko e Kotoku Shusui. La parola francese bourgeois deriva a sua volta da bourg (borgo), così come la parola giapponese chonin (commerciante) da cho (quartiere).
2. Cfr. Franco Mazzei. Le riforme Meiji in Giappone, in La storia, vol.XII, par. XII, La Biblioteca di Repubblica, UTET, Torino e De Agostini Editore, Novara, 2004, pp.509-541.
3. Ibidem, pp.540-541.
4. Cfr. Claudio Zanier. 1975. Accumulazione e sviluppo economico in Giappone. Einaudi, Torino.
5. Ibidem, p.55.
6. Cfr. Vittorio Volpi. 2002. Giappone. L’identità perduta. Sperling & Kupfer, Milano.



Bibliografia

Ike, Nobutaka. The Development of Capitalism in Japan, in "Pacific Affairs", vol.XXII, 1949.
Martorella, Cristiano. 2002. Il concetto giapponese di economia: le implicazioni sociologiche e metodologiche. Atti del XXV Convegno di Studi sul Giappone. Cartotecnica Veneziana Editrice, Venezia.
Miyamoto, Mataji. The Merchants of Osaka, in "Osaka Economic Papers", n.1, vol. VII, 1958.
Molteni, Corrado. 2004. Debito pubblico e politiche economiche, in Il Giappone che cambia. Atti del XXVII convegno di studi sul Giappone. Cartotecnica Veneziana Editrice, Venezia.
Smith, Thomas. 1959. The Agrarian Origins of Modern Japan. Stanford University Press, Stanford.
Smith, Thomas. 1955. Political Change and Industrial Development in Japan. Stanford University Press, Stanford.
Takahashi, Masao. 1967. Modern Japanese Economy since the Meiji Restoration. KBS, Tokyo.
Takekoshi, Yosaburou. 1930. The Economic Aspects of the History of the Civilization of Japan. Allen and Unwin, London.
Volpi, Vittorio. 2002. Giappone. L’identità perduta. Sperling & Kupfer, Milano.
Zanier, Claudio.1975. Accumulazione e sviluppo economico in Giappone. Einaudi, Torino.