sabato 30 gennaio 2010

Educazione creativa

La scheda della recensione del volume L'educazione creativa pubblicata dal sito Nipponico.com.


Makiguchi Tsunesaburo,
L'educazione creativa,
La Nuova Italia, Firenze, 2000
pagine 250

Quanto sia avanzata la pedagogia giapponese è questione ignota ai lettori italiani avvezzi ai servizi giornalistici sulla cultura giovanile fra i più bizzarri. Per fortuna alcuni studiosi riescono a fornire contributi importanti come il presente testo che costituisce una selezione degli scritti di Makiguchi Tsunesaburo contenuti in Soka kyoikugaku taikei (Il sistema della pedagogia creatrice di valore). La traduzione dall'inglese è di Fiorella Oldoini, mentre l'edizione internazionale edita dalla Soka Gakkai nel 1989 è stata curata da Dayle Bethel, che ha aggiunto molte note esplicative ricche e ben documentate. L'introduzione italiana è di Massimiliano Tarozzi che contestualizza il pensiero di Makiguchi alla luce del percorso delle scuole pedagogiche di altri paesi compreso il nostro.
Makiguchi pubblicò nel 1930 il primo volume della sua opera, che sarà costituita in totale da quattro volumi nonostante il progetto ne prevedesse dodici. L'autore aveva già scritto precedentemente due libri, Jinsei chirigaku (Geografia della vita umana, 1903) e Kyodoka kenkyu (Studio delle comunità locali, 1912), quest'ultimo nato dalla partecipazione al Kyodokai guidato dal celebre studioso Yanagita Kunio.
Secondo Makiguchi lo scopo principale dell'educazione è la felicità. Per giungere a ciò bisogna però rivedere profondamente la concezione dell'uomo e la società in cui è inserito. La società non deve essere repressiva in alcun caso, ma deve contribuire allo sviluppo e alle propensioni dell'essere umano. Non è sbagliato il desiderio di realizzazione dell'individuo e un sano individualismo che contribuisca al rispetto della persona, se questo però non eccede tramutandosi in egocentrismo. L'aspetto fondamentale della teoria pedagogica di Makiguchi è l'idea che l'essere umano sia il creatore di valori. Lo scopo della pedagogia diventa dunque sviluppare nell'individuo una coscienza d'appartenenza alla società e indicare gli obiettivi e i valori verso cui orientare la creatività umana. In particolare, il bene del bambino non va sfruttato come copertura dei propri interessi. Così Makiguchi spiega questo principio:

"In primo luogo è necessario stabilire cosa la società si aspetta dal sistema educativo. Ciò significa prendere in considerazione sia le aspirazioni dei genitori per i propri figli, sia le aspettative che la collettività ripone sulle generazioni future. Genitori che davvero amino i loro figli non penserebbero mai di strumentalizzarli per il proprio benessere. [...] Una società deve essere attenta al benessere e alle necessità di ogni bambino: se dovesse semplicemente preoccuparsi di trarre profitto da coloro che educa, il risultato sarebbe disastroso per l'una e per gli altri."

Manuela Gandini ha evidenziato il valore formativo e pacifista dell'opera nella sua recensione che ha anche un accenno polemico circa la società contemporanea.

"C'è qualche sinistra assonanza tra il nazionalismo degli stati totalitari dell'inizio del secolo scorso e l'attuale dittatura del consumo nelle democrazie. Nel primo caso i bambini venivano (e vengono in certi stati), educati a diventare sudditi o fedeli, nel secondo divengono consumatori acritici nel mondo delle merci. [...] Makiguchi (1871-1944), pedagogo e maestro di scuola elementare, battutosi per la trasformazione radicale dell'educazione del tempo, afferma la centralità del bambino con i suoi bisogni (quelli veri), e dichiara che lo scopo principale della formazione dell'individuo è la felicità. Una felicità scollegata dalla materialità che si costruisce attraverso lo sviluppo di una coscienza sociale, e la valorizzazione del senso di interdipendenza tra tutte le cose." [Cfr. Gandini, Manuela, Educazione contro la guerra, in "Il Sole 24 Ore", 22 dicembre 2002, p. 36.]

Così Manuela Gandini riscopre la grande attualità di Makiguchi Tsunesaburo. Non poteva mancare una recensione di Cristiano Martorella, che mette in evidenza gli aspetti attualissimi della pedagogia giapponese.

"La concezione innovativa di una pedagogia che pone la felicità come scopo dell'educazione e la diversità come ricchezza. La critica alla didattica che attraverso banali generalizzazioni crea pericolosi stereotipi oppure applica ricette particolari a casi differenti. Insomma un attacco dissolutore dei pregiudizi, dell'autogiustificazione e dell'idea che "la ragione è del più forte". Una concezione della pedagogia che Manuela Gandini ha definito "educazione contro la guerra" nella sua pertinente recensione all'opera di Makiguchi, ricordando l'impegno pacifista dell'autore. Invece Massimiliano Tarozzi riconosce in Makiguchi un precursore di don Milani, Montessori, Ciari, Dolci e Rodari. Ciò conferma quanto affermiamo da tempo sulla posizione avanzatissima della pedagogia giapponese che sia per l'esperienza sia per lo sviluppo teorico si trova molto più in là rispetto alla pedagogia occidentale intrappolata dal quesito di quanti "no" e "sì" dire ai bambini. Makiguchi sviluppa il suo sistema utilizzando due matrici culturali: la scienza, che è il contrario dello scientismo che considera la scienza come la risposta ad ogni esigenza umana, e il buddhismo, che elimina ogni superstizione e non pone un dio creatore. Questo equilibrio fra religione e scienza considera l'individuo in relazione con gli altri senza ignorare le singole esigenze, ma neppure isolandolo come un elemento meccanico della società. Una prospettiva incredibilmente innovativa per la nostra epoca dominata dagli estremismi dello scientismo, che pone come scopi dell'individuo falsi criteri scientifici, e il postmodernismo, che ci abbandona all'irrazionalità e alla perdita di senso. Un'epoca dove la parola felicità è diventata tabù." [Cfr. Martorella, Cristiano, Scaffale/Saggi, in "LG Argomenti", anno XXXIX, n. 2, aprile-giugno 2003, p. 89.]

In effetti, se letta con attenzione, l'opera di Makiguchi Tsunesaburo apre un orizzonte ancora ignorato dalla pedagogia occidentale.

martedì 26 gennaio 2010

Le eterotopie del capitalismo

Sul tema del relativismo culturale e delle eterotopie del capitalismo, segnalo il riassunto della mia conferenza sull'economia giapponese tenuta dall'AISTUGIA, disponibile al seguente indirizzo:

http://venus.unive.it/aistug/sunti/venezia/martorella.html

In questi anni, i problemi posti dall'economia giapponese si sono acuiti e spostati alla società cinese, ponendo la sempre maggiore e crescente difficoltà di comprensione dei fenomeni. L'idea sostenuta in maniera semplicistica di uno sviluppo del capitalismo grazie alle virtù liberali della società cristiana occidentale, si è irrigidita grazie alla propaganda e al populismo dei movimenti politici. In questo modo la contraddizione più evidente, ossia la presenza della seconda potenza economica, la Cina, fondata su una mistura di capitalismo, comunismo e confucianesimo, non è stata mai presa seriamente in considerazione, e banalmente ridotta a una anomalia. Ciò che invece è falso, ossia l'idea che il capitalismo tragga la sua forza e le sue radici dal liberalismo e dal cristianesimo, viene mistificato e spacciato ideologicamente. Purtroppo il capitalismo è un sistema neutrale che si nutre di contraddizioni, e ha come unico scopo il rafforzamento di se stesso, indipendentemente dall'ideologia politica al potere. In questo modo si spiega perché i paesi dell'Estremo Oriente, come Cina e Giappone, possano adottare un sistema capitalistico senza mutare la struttura sociale. Ed è questo fenomeno che economisti e sociologi dovrebbero studiare, invece di cantare le lodi della società occidentale posta come modello indiscutibile di sviluppo.
Cristiano Martorella

giovedì 14 gennaio 2010

Abe Masao

Abe Masao, il filosofo della diversità
La logica del sokuhi come dialettica del cambiamento
di Cristiano Martorella

20 maggio 2008. In un'epoca che vede i pensatori occidentali arroccarsi sulla posizione conformista della condanna del relativismo culturale, considerato come la causa di tutti i mali della società contemporanea, la filosofia giapponese si presenta come una sfida audace. Fra gli autori che sostengono questa sfida, bisogna ricordare anche Abe Masao (1915-2006).
Abe Masao è stato professore emerito dell'Università di Nara, ed è considerato unanimemente come uno degli ultimi membri della cosiddetta Scuola di Kyoto, la più rappresentativa e originale scuola di pensiero del mondo accademico giapponese. Egli fu un bravo commentatore e divulgatore del lavoro di Nishida Kitaro. Inoltre recuperò i grandi classici buddhisti, come gli studi di Dogen, propendendo per una attualizzazione del buddhismo nell'ambito filosofico contemporaneo. Il testo più significativo e importante che scrisse fu Zen and Western Thought (1), un caposaldo della filosofia comparativa. L'opera di Abe Masao è il tentativo di mostrare i limiti della logica e del linguaggio attraverso la logica e il linguaggio stessi. Un paradosso che serve a delucidare il carattere illusorio della conoscenza. Tutto è illusione, compresa l'illusione di conoscere il carattere illusorio della realtà. Il nucleo centrale di questo pensiero è nella logica del sokuhi, una particolare logica giapponese basata sul principio del "è eppure non è". Secondo Suzuki Daisetsu, si può affermare dicendo che "a è a perché a non è a", in palese opposizione alla logica aristotelica che dice che "a è uguale a se stesso" (principio di identità). La formalizzazione (2) di tutto ciò nella logica simbolica è molto semplice:

a = a (principio di identità)
~ ( a ^ ~ a ) (principio di non-contraddizione)
a = a → a = ~ a (principio del sokuhi)

La logica occidentale non ha accettato pedissequamente i princìpi aristotelici, anzi li ha spesso contestati avvicinandosi piuttosto alle considerazioni dei maestri orientali (sostenitori di una logica più concreta e meno astratta). D'altronde per mantenere un'unità del pensiero occidentale, si sono nascoste le tante obiezioni dei pensatori più originali (3). David Hume, nel Trattato sulla natura umana (4), critica il principio di identità dicendo che non si può affermare che un oggetto sia identico a se stesso se non limitiamo il periodo di tempo stabilito. Inoltre Hume critica la possibilità di intendere l'identità come una relazione. Infatti dovrebbe essere una relazione di tipo molto particolare, ossia una relazione con se stesso. In questo modo non si distingue la relazione dal mero attributo di esistere. Ludwig Wittgenstein (5) fu altrettanto intransigente. Egli affermò che "dire di due cose che esse sono identiche è un non senso, e dire di una che essa è identica a se stessa non dice nulla" (Tractatus logico-philosophicus, par. 5.5303).
La filosofia giapponese non è però interessata alla confutazione del principio di identità. Essa sostiene qualcosa in più, qualcosa che è diverso. Il principio del sokuhi dichiara che l'identità esiste solo nella negazione. La parola sokuhi è composta da due kanji, il primo significa equivalenza, il secondo negazione. Secondo Abe Masao, le cose sono uguali perché sono diverse, e ciò accade perché esistono nel cambiamento. Tutto ciò che esiste lo è in quanto tale poiché diviene. Quindi esso "è eppure non è". La filosofia occidentale ha ignorato un aspetto dell'esistenza, ritenendo che l'identità non sia la differenza. Il sistema di pensiero della tradizione cristiano-giudaica è ostile alla diversità. La polarità di bene e male non è conciliabile, ovvero non c'è riconciliazione fra Dio e Satana. Il buddhismo non concepisce un'opposizione e un dualismo così assoluto ed esclusivo. Al contrario, sostiene il relativismo. Tutte le creature sono partecipi della natura di Buddha, e nessuno vi è escluso.
Abe Masao ricerca nel buddhismo le espressioni di ciò che indica la possibilità di attingere la non dualità (funi), e permetta quindi di superare la distinzione tra l'identità e la differenza. In termini religiosi, significa comprendere la propria natura di Buddha, capire che non c'è distinzione tra il soggetto e Buddha. Chi vede che Buddha è in ogni cosa è Buddha, e Buddha è in lui perché è in ogni cosa. Questo atto è un'esperienza che svela il carattere autentico della realtà, ovvero che essa è una cosa unica. Non esiste un oggetto separato dal mondo, bensì ciascun oggetto è compartecipe del mondo, esso stesso è il mondo. Per questo motivo l'identità da sola è un non senso. Gli oggetti esistono soltanto in virtù della relazione con gli altri oggetti. Esiste perché da solo non potrebbe esistere, dunque è altro da sé, è diverso.
Per quale motivo l'uomo comune non è capace di riconoscere la realtà così come abbiamo appena descritto? Dipende dai condizionamenti sociali che imbrigliano la mente umana e la rendono succube di una visione isolante, limitativa e inautentica. L'egocentrismo impedisce di vedere liberamente le cose così come sono. L'attaccamento all'ego tende a rafforzare l'idea di un'identità sempre uguale a se stessa. Eppure l'ego è una costruzione artificiale determinata dai ruoli sociali interpretati. La personalità, l'io, è un aggregato di corpo, sensazioni, pensieri, volontà e coscienza che presi isolatamente sono vuoti di contenuto. La consapevolezza del carattere illusorio dell'io è ciò che ci libera dai suoi condizionamenti, sia interni sia esterni. Tutto ciò che ha forma è illusione. E quando si vede che ogni forma è vuota, si riconosce il tutto che è il Buddha. Tutte le cose sono Buddha. L'identità è diversità, e la diversità è identità. In conclusione, soltanto attraverso questo tipo di relativismo (6) si può dissolvere l'inganno dei sensi e della mente. Rifiutare la diversità comporta inevitabilmente la crisi che conduce al conflitto.

Note

1. Cfr. Abe, Masao, Zen and Western Thought, University of Hawaii Press, Honolulu, 1985.
2. Per la formalizzazione si sono seguite le regole dei manuali adottati nei corsi di logica. Cfr. Marsonet, Michele, Logica e linguaggio, Pantograf, Genova, 1993; Agazzi, Evandro, La logica simbolica, La Scuola, Brescia, 1990. Per ulteriori approfondimenti: Quine, Willard Van Orman, Manuale di logica, Feltrinelli, Milano, 1968; Strawson, Peter Federick, Introduzione alla teoria logica. Einaudi, Torino, 1975; Carnap, Rudolf, Sintassi logica del linguaggio, Silva, Milano, 1961.
3. L'unità del pensiero occidentale corrisponde più spesso a un'esigenza politica. Sulle manipolazioni politiche della scienza si legga Paul Feyerabend. Cfr. Feyerabend, Paul, Ambiguità e armonia, Laterza, Roma-Bari, 1996; Feyerabend, Paul, Dialogo sul metodo, Laterza, Roma-Bari, 1993.
4. Cfr. Hume, David, Trattato sulla natura umana, Laterza, Roma-Bari, 1978.
5. Cfr. Wittgenstein, Ludwig, Tractatus logico-philosophicus, Einaudi, Torino, 1964. Per la convergenza del pensiero di Wittgenstein con lo zen si leggano i seguenti testi: Martorella, Cristiano, Affinità fra il buddhismo zen e la filosofia di Wittgenstein, in "Quaderni Asiatici", n.61, marzo 2003; Nakamura, Hajime, Wittgenstein ni okeru chinmoku, in "Wittgenstein", Gendaishiso, numero speciale Voll. 13-14, Seidosha, Tokyo, 1985.
6. Leonardo Vittorio Arena ha sottolineato l'importanza del lavoro di Abe Masao, sostenendo anche l'attualità della filosofia giapponese che enfatizza il relativismo culturale. Il Giappone ha dimostrato con la propria civiltà che è possibile qualcos'altro. Il capitolo su Abe Masao è in Arena, Leonardo Vittorio, Lo spirito del Giappone. La filosofia del Sol Levante dalle origini ai giorni nostri, Rizzoli, Milano, 2008, pp. 340-346 .

Bibliografia

Abe, Masao, Zen and Western Thought, University of Hawaii Press, Honolulu, 1985.
Abe, Masao, A Study of Dogen. His Philosophy and Religion, State University of New York Press, Albany (NY), 1991.
Abe, Masao, The Logic of Absolute Nothingness, as Expounded by Nishida Kitaro, in "The Eastern Buddhist", n.2, XXVIII, 1995.
Arena, Leonardo Vittorio, Lo spirito del Giappone. La filosofia del Sol Levante dalle origini ai giorni nostri, Rizzoli, Milano, 2008.
Arena, Leonardo Vittorio, Storia del buddhismo Ch'an, Arnoldo Mondadori, Milano, 1992.
Hoover, Thomas, La cultura zen, Arnoldo Mondadori, Milano, 1981.
Hume, David, Trattato sulla natura umana, Laterza, Roma-Bari, 1978.
Martorella, Cristiano, Gioco linguistico e satori, Relazione del corso di Filosofia del Linguaggio, Facoltà di Lettere e Filosofia, Università di Genova, 1999.
Martorella, Cristiano, La verità e il luogo, in "Diogene Filosofare Oggi", anno II, n. 4, giugno-agosto 2006.
Martorella, Cristiano, Il pluralismo del doppio, in LG Argomenti, n.3, anno XXXVIII, luglio-settembre 2002.
Martorella, Cristiano, Affinità fra il buddhismo zen e la filosofia di Wittgenstein, in "Quaderni Asiatici", n.61, marzo 2003.
Nakagawa, Hisayasu, Introduzione alla cultura giapponese. Saggio di antropologia reciproca, Bruno Mondadori, Milano, 2006.
Nishida, Kitaro, Nishida Kitaro zenshu, Iwanami, Tokyo, 1966.
Nishida, Kitaro, La logica del luogo e la visione religiosa del mondo, L'Epos, Palermo, 2005.
Nishida, Kitaro, L'io e il tu, Unipress, Padova, 1997.
Nishida, Kitaro, Il corpo e la conoscenza, Cafoscarina, Venezia, 2001.
Nishida, Kitaro, Uno studio sul bene, Bollati Boringhieri, Torino, 2007.
Nishitani, Keiji, La religione e il nulla, Città Nuova, Roma, 2004.
Ueda, Shizuteru, Zen e filosofia, L'Epos, Palermo, 2006.
Vianello, Giancarlo, Messaggeri del nulla. La scuola di Kyoto in Europa, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2006.
Wittgenstein, Ludwig, Tractatus logico-philosophicus, Einaudi, Torino, 1964.

sabato 2 gennaio 2010

La pedagogia giapponese

Articolo sulla pedagogia buddhista pubblicato dalla rivista "LG Argomenti". Cfr. Cristiano Martorella, Letteratura e pedagogia buddhista, in "LG Argomenti", n.4, anno XXXIX, ottobre-dicembre 2003, pp.63-65.

Letteratura e pedagogia buddhista
La posizione giapponese sulla questione della lettura
di Cristiano Martorella

La questione del valore pedagogico della lettura è tornata prepotentemente alla ribalta grazie ai numerosi contributi critici di Lino Gosio e Giorgio Bini che hanno sollevato importanti dubbi sull’atteggiamento della critica letteraria contemporanea. Si può riassumere il dibattito ricordando come sia stata messa in evidenza l’esistenza di due scuole di pensiero. La prima è quella edonistica e libertaria che afferma il valore della lettura come puro intrattenimento piacevole. La seconda, invece, contesta la possibilità di escludere i valori pedagogici della lettura. Quest’ultima potrebbe chiamarsi scuola pedagogica critica, considerando il carattere contestatario e riflessivo. A queste due scuole vogliamo aggiungerne una terza, quella giapponese della pedagogia buddhista, chiamata col nome di scuola creativa dei valori (soka kyoikugaku).
Il dibattito si è fatto particolarmente intense perché è emerso quanto sia limitata la prospettiva della scuola edonista che si poggia sui luoghi comuni della nostra epoca. Ed è pure smentita dal calo dei lettori che trovano ancora troppo faticoso leggere nonostante le proposte sempre più appetibili. Un autentico schiaffo alla critica letteraria sensualistica che presenta una mera tautologia affermando che si legge per il piacere della lettura. Soprattutto ci mette nel rischio dell’anomia quando esegue il passaggio non consequenziale che propone di eliminare la morale e la pedagogia per migliorare la letteratura. Sarebbe bastato ricordare l’opera di Oscar Wilde per riconoscere quanto sia pedagogica la posizione antimoralista di chi critica la morale, evidenziando che una simile contrapposizione fra pedagogia e letteratura è irrealistica. Perfino chi critica la morale fa pedagogia, e Oscar Wilde ne era consapevole. Tanto da essere stato un raffinato autore di racconti per bambini (Il principe felice, 1888; La casa dei melograni, 1891). Se poi volessimo scomodare il caustico Friedrich Nietzsche vedremmo quanto è ridicolo sostenere un piacere della lettura slegato dalle conseguenze morali. Lo spirito dionisiaco afferma appunto il valore di una morale che nega qualunque principio trascendente in favore dei valori mondani e del riconoscimento del carattere caotico e tragico dell’esistenza. La trasvalutazione è atto morale per eccellenza. Ignorare la questione significa essere ipocriti oppure ignoranti. Questi due mali sociali, ipocrisia e ignoranza, hanno portato Oscar Wilde in prigione e Friedrich Nietzsche in manicomio. Simili conseguenze del pensiero divergente non sono trascurabili.
La posizione giapponese della scuola creativa dei valori (soka kyoikugaku) propone di eliminare il dualismo fra felicità e conoscenza, e così fra piacere e dovere. Nel fare ciò non si opta per l’una o l’altra cosa, piuttosto si fondono. Un individuo consapevole e libero è capace di agire moralmente senza avvertire le regole come un ostacolo oppure un peso. Addirittura, la migliore morale non è quella che stabilisce un elenco di regole, ma insegna a percepire tramite il sentimento ciò che ci fa stare bene. Lo sforzo della pedagogia di Tsunesaburo Makiguchi di conciliare felicità individuale e sviluppo sociale comincia dal riconoscimento della necessità dello spirito critico.

"È molto diffusa la tendenza ad accettare ciecamente le opinioni di una qualche autorità, anche per quel che riguarda le questioni essenziali della nostra esistenza. Così accade che, nonostante le nostre evidenti capacità in altri contesti, quando ci confrontiamo con qualcosa che non comprendiamo, o che è difficile da interpretare, non proviamo neppure a riflettere, e accettiamo passivamente il punto di vista dei nostri superiori o di chi si mostra esperto. Peggio ancora: alcuni si affidano, per le più importanti decisioni, ai chiromanti, all’astrologia, all’I Ching o cose simili. Esiste invece, dall’altro estremo, la tendenza a sorvolare sulle cose semplici e di routine, di fronte alle quali si agisce intuitivamente piuttosto che sulla base di un’analisi ragionata. Di solito riusciamo a cavarcela, ma non possiamo, alla lunga, evitare le conseguenze degli errori che continuiamo a ripetere." [Tsunesaburo Makiguchi, L’educazione creativa, Firenze, La Nuova Italia, 2001, pp.27-28]

Makiguchi affronta anche un altro punto d’attualità scottante. Si è spesso invocata la specializzazione per giustificare la separazione delle diverse discipline. Così si è sostenuto di dover liberare la letteratura per l’infanzia dalla pedagogia. Viceversa la pedagogia ignora le osservazioni e le obiezioni dei critici letterari (si pensi alla diatriba sugli apparati didattici nei libri). Questa segregazione e parcellizzazione del sapere è estremamente dannosa.

"L’educazione è un settore estremamente complesso, la sua sistematizzazione razionale e scientifica un’impresa enorme. Sperare che la limitata esperienza e le idee creative di individui isolati possano portarla a termine è del tutto illusorio. Questo sarà possibile soltanto con la collaborazione di esperti di diverse discipline capaci di concordare gli obiettivi fondamentali dell’educazione e successivamente indirizzare i contributi di varia provenienza verso tali obiettivi." [Ibidem, p.116]

Ma il problema il problema essenziale toccato da Makiguchi è lo stesso della nostra società globalizzata che costringe a una individualità predefinita in rigidi schemi relazionali. L’omologazione è assicurata proprio dal diritto di essere tutti diversi dentro le regole di un sistema democratico che non garantisce alcunché. Le relazioni umane non vengono mai considerate in concreto e nelle loro conseguenze reali.

"La risposta pura e semplice è che, per quanto la si voglia esaltare, l’individualità si sviluppa solo entro i confini dell’umanità, vale a dire accettando ed essendo coscienti di appartenere alla comunità umana. Sulla base di questa premessa, la ricerca della propria individualità è una ricerca comune a tutta l’umanità, mentre il solo perseguire la differenza fra sé e gli altri sfocia nel solipsismo di tipo autistico, un segnale di totale inaccessibilità all’altro che in questo contesto non ci riguarda né ci interessa. Questa forma di individualismo non può essere oggetto di un serio dibattito sull’educazione." [Ibidem, p.152]

Questo errore che porta inequivocabilmente al solipsismo è lo stesso in cui sono caduti i critici letterari italiani che hanno sposato la causa della liberazione dalla pedagogia in modo frettoloso e superficiale. L’insegnamento del buddhismo è il riconoscimento della relazione fra tutte le cose. Se qualcuno vuole tentare di segregare, limitare e privare la conoscenza andrà sicuramente incontro al fallimento. La lettura non è soltanto un piacere, è innanzitutto capacità di stabilire relazioni.



Articolo di Cristiano Martorella pubblicato dalla rivista "LG Argomenti". Cfr. Cristiano Martorella, Letteratura e pedagogia buddhista, in "LG Argomenti", n.4, anno XXXIX, ottobre-dicembre 2003, pp.63-65.

Pedagogia e poesia giapponese

Articolo sulla poesia giapponese e la pedagogia pubblicato dalla rivista "LG Argomenti". Cfr. Cristiano Martorella, La poesia giapponese per bambini, in "LG Argomenti", n.1, anno XXXVIII, gennaio-marzo 2002, pp.23-29.


La poesia giapponese per bambini
di Cristiano Martorella

1. L’Oriente come problema ideologico

La fama della poesia orientale è ormai ben diffusa in Europa, grazie anche all’acume di letterati come Johann Wolfgang Goethe che svolsero in maniera pionieristica un avvicinamento alla cultura orientale in tempi lontani e difficili. Il caso di Goethe, autore del Divano occidentale-orientale (Westöstlicher Divan, 1814-1819; opera nata da un protratto studio della poesia persiana come quella di Hafiz), non fu isolato nell’Ottocento. Sempre in Germania ricordiamo Friedrich Rückert che scrisse Rose orientali (1822) e La saggezza del bramino (1836-1839), e August Platen-Hallermünde, autore di Gazele (1821). Il confronto con la civiltà orientale fu uno stimolo per gli intellettuali europei che caricarono di valenze politiche gli studi letterari. Il riconoscimento di culture “altre” capaci di produrre civilizzazione, conoscenza ed arte, fu una bandiera del relativismo culturale, oggi fortemente osteggiato.
Per quanto riguarda la poesia giapponese, oggetto di questa trattazione, essa raggiunse agli inizi del Novecento una grande ammirazione in Italia, dovuta soprattutto ai gusti dell’epoca. Erano le poesie d’amore a colpire l’immaginazione dei lettori già avvezzi alle languide sensualità del verso dannunziano. Su tale gusto prosperò una certa editoria, fra cui la casa editrice L’Estremo Oriente di Villafranca di Verona, che presentò le traduzioni del capitano Bartolomeo Balbi. Questa diffusione ebbe effetti positivi, ben maggiori rispetto a quelle note negative che potrebbero essere rintracciate (esotismo superficiale e cliché). Oltre ad un aspetto commerciale, queste pubblicazioni ebbero un riflesso in lavori seri e ben fatti, come la Letteratura e crestomazia giapponese (1915) di Arcangeli. Passando ai nostri tempi, osserviamo con soddisfazione che sono state pubblicate recentemente ottime traduzioni italiane delle poesie giapponesi, fra cui segnaliamo quelle curate da Ikuko Sagiyama e Mariko Muramatsu.
Quindi non è minimamente messa in dubbio l’importanza della poesia giapponese. Strano, invece, che nel momento in cui si tratti la letteratura per l’infanzia, essa svanisca di colpo, e i nostri critici, colpiti da amnesia, si rinchiudano in un’ottica etnocentrica che separa i bambini italiani dall’infanzia del resto del mondo. Tale mancanza non è certo imputabile alla poesia giapponese, repertorio ricchissimo che presenta un filone anche per bambini. Bisogna denunciare chiaramente quello che sta avvenendo. Contrariamente agli slogan che inneggiano al multiculturalismo, si assiste a una volontà di omologazione e conformismo seriamente intenta a eliminare ogni diversità. Si fa un perverso uso di pedagogia e sociologia, utilizzate strumentalmente e in modo non scientifico, per sostenere un’uguaglianza - non dei diritti - ma di pensiero: un’uguaglianza che schiaccia il diverso.
Cosa c’è, dunque, di più sovversivo, creativo e libero della poesia? La poesia si pone anche al di sopra del linguaggio, ella stessa partorisce la lingua. La poesia unisce emozioni e raziocinio nella parola, la poesia ordina e crea il mondo, la poesia è l’atto sublime che rende all’uomo la sua umanità. Tutto ciò aumenta la gravità di una mancanza di studi adeguati sulla poesia giapponese per bambini, una carenza che è comprensibile soltanto alla luce di pregiudizi ideologici. A dimostrazione di quanto affermato, è illuminante un passo di Rita Casadei che esplicita la concezione italiana della letteratura giapponese per l’infanzia.

"Per concludere vorrei esprimere alcune considerazioni sul valore e funzione sociale e relazionale delle favole. La presenza, quasi consueta, di una guida all’interpretazione in chiave morale del significato della favola lascia intendere la volontà (che in Giappone è necessità) di fissare, in una rigida cornice, il sistema di valori della società giapponese, incanalando in quella direzione il pensiero e l’azione dei bimbi. Tra i più importanti valori sociali comunicati mediante la favola occupano il primo posto il rispetto per la gerarchia dei poteri, e per quella generazionale, a sostegno dei quali gioca un ruolo fondamentale un linguaggio elaborato e oltremodo ossequioso, accompagnati dal sacrifico e dall’obbedienza celebrati come virtù necessarie e funzionali al raggiungimento del consenso sociale, vero motore, in Giappone, delle relazioni interpersonali. Poco spazio viene riservato alla dimensione creativa, tanto che l’unicità non è quasi mai connotata positivamente costituendo piuttosto un elemento di disturbo dell’armonia sociale: uniformità e omogeneità sono regole della convivenza che è bene imparare da subito. È sempre percettibile una sottile voce che invita e addestra all’ubbidienza, alla rassegnazione, all’ordine, all’agire in conformità delle regole per ottenere il plauso della comunità." [Cfr. Rita Casadei Okada, La letteratura giapponese per ragazzi, in “Il Pepeverde”, n.3/2000, p.27]

Secondo Rita Casadei, i bambini giapponesi sarebbero ridotti a macchinette programmate, ubbidienti e servili. Una prospettiva non soltanto irrealistica ma che sembrerebbe quasi essere viziata da un pregiudizio razziale. Una certa ideologia, purtroppo, si è spesso basata su questa idea di inferiorità e mancanza d’anima dell’individuo straniero (cfr. Marvin Harris, L’evoluzione del pensiero antropologico, Il Mulino, Bologna 1971, pp.109-144). Per una conoscenza corretta della vita dei bambini giapponesi si consulti invece Joseph Tobin e il suo approfondito studio (cfr. Joseph T. Tobin, David Y. H. Wu, Dana H. Davidson, Infanzia in tre culture. Giappone, Cina e Stati Uniti, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2000, pp.5-89). Si apprenderà la grande libertà di cui godono i bambini giapponesi, il metodo d’insegnamento definito della “vivacità flessibile” e la tolleranza degli educatori. Circa il rispetto della gerarchia, evocato da Casadei con serietà, fa soltanto sorridere per l’ingenuità dimostrata. Il rispetto formale non è un’esclusiva giapponese. Noi italiani ci vantavamo, una volta, del nostro stile, della galanteria e del rispetto dell’etichetta. Si usava chiamare tutto ciò civiltà. In Giappone le gerarchie non sono eterne. Gli storici, ad esempio, chiamano ge koku jo (quelli in basso passano quelli in alto) il periodo politico che vide l’affermazione dei Tokugawa e di nuove classi. Si pensi anche a Hideyoshi, uomo di umili origini, divenuto taiko (granduca) per i meriti militari. Ciò dovrebbe far riflettere su quanto siano flessibili, in effetti, le “gerarchie” giapponesi.
I giapponesi non sono un popolo di marionette come spesso si è descritto, ma persone sensibili e capaci dotate di grande creatività. Per nascondere tutto ciò si deve ricorre continuamente a sotterfugi, inganni e menzogne. Ed è questa l’operazione ideologica che divide il mondo in buoni e cattivi, in Occidente e Oriente. A tal proposito è straordinaria la lucidità mentale di Giorgio Bini che smaschera anch’egli questa divisione: “la possibilità di crescere liberi e solidali, di comprendere e cambiare il mondo, di amarsi di là dalle divisioni e dai conflitti, non è più di moda” (cfr. Giorgio Bini, Rodari, ideologia e pedagogia, in “LG Argomenti” n.4 ottobre-dicembre 2000, p.45).
Ma ritorniamo alla poesia, sperando che ci liberi da questo carico ideologico oppressivo e avvilente.

2. La poesia nella vita dei giapponesi

La poesia occupa un posto molto importante nella vita dei giapponesi, vedremo in quale modo e a quanti diversi livelli. Il primo aspetto riguarda l’identità nazionale e l’autonomia culturale. Nell’antichità il Giappone attinse dalla civiltà cinese quanto mancava per il proprio sviluppo, ma la poesia giapponese rimase sempre una prerogativa autoctona distinguendosi rapidamente dai modelli cinesi per lingua, metrica e stile, rappresentando il primo nucleo di una civiltà indipendente. La più famosa antologia poetica fu il Man’yoshu compilata da Otomo no Yakamochi intorno al 760. Segue per importanza il Kokinshu, antologia curata da Ki no Tsurayuki e altri verso il 920 circa. Questi lavori fondamentali sono serviti da base per ogni sviluppo successivo. Si pensi, ad esempio, all’attuale inno nazionale giapponese (Kimigayo) ricalcato su una antica poesia del Kokinshu.

Viva il mio signore
per mille, ottomila regni,
finché un ciottolo
non diventi roccia
e il muschio vi cresca !
[Trad. di Ikuko Sagiyama, Kokin Waka shu, Ariele, Milano, 2000, p.244]

Ma questo è soltanto il livello che riguarda la storia giapponese, ed è forse il più semplice ed evidente. Il livello maggiormente ricco e complesso è invece quello che riguarda la vita quotidiana e affettiva dei giapponesi. Prima di parlarne dobbiamo però fare un passo indietro. Il continuo equivoco degli occidentali che contrappongono tradizione e modernità giapponese potrebbe ancora ostacolare la comprensione. Seppure la poesia giapponese ebbe le sue origini nelle classi agiate dell’aristocrazia, le dinamiche sociali del Giappone trasferirono l’arte poetica prima dall’aristocrazia all’alta borghesia, e poi dalla borghesia ad ogni strato della società. Tanto che oggi la poesia è un passatempo (shumi) coltivato un po’ da chiunque grazie al sostegno di riviste letterarie, ai concorsi, agli incontri. Questo processo di democratizzazione della letteratura va evidenziato per sgombrare la mente da falsi stereotipi. Kenji Miyazawa, il più importante scrittore giapponese per bambini, ci appare come una figura di poeta-contadino che reca in una mano la vanga e nell’altra la carta da scrivere. Persino la sua opera è intrisa dell’aroma della terra in un felice connubio d’arte, natura e spirito (cfr. Shin kohon Miyazawa Kenji zenshu, Chikuma Shobo, Tokyo, 1996).
L’idea di una cultura giapponese esclusivamente radicata all’aristocrazia sarebbe tanto parziale quanto falsa. E tradirebbe molte delle aspirazioni dei tanti scrittori e intellettuali giapponesi. Questa premessa ci permette finalmente di comprendere l’uso della poesia come mezzo di comunicazione nella vita quotidiana. Il patrimonio poetico condiviso e interiorizzato dal popolo giapponese è sentito come vivo e sincero. La poesia non è considerata una tecnica del letterato, ma un mezzo di comunicazione fra l’individuo e l’ambiente, fra i singoli membri di una comunità. L’abilità del poeta è attribuita alla sua sensibilità e al gusto, alle sue qualità umane piuttosto che a un vacuo tecnicismo. Recentemente Ikuko Sagiyama ha presentato al XXV convegno di studi sul Giappone (Venezia, 4-6 ottobre 2001) una bella relazione, insieme ad altri conferenzieri, intitolata La funzione della poesia nella società. Ciò a conferma dell’importanza e valore dell’argomento qui trattato.

3. Concetti estetici giapponesi

Questi presupposti ci aiutano a capire la diversa estetica della poesia giapponese. E ci indicano anche le difficoltà che si interpongono fra il critico occidentale e l’oggetto del suo studio. Alcuni concetti estetici che caratterizzano l’arte giapponese sono wabi, sabi, hosomi, shiori e karumi. Wabi è un gusto semplice, povero, puro e austero. Sabi è un ideale estetico che rimanda alla patina del tempo, alla solitudine, alla quiete e semplicità. Hosomi è una finezza della sensibilità, shiori è la delicatezza dell’espressione, e infine karumi è la leggerezza. La poesia giapponese è dunque improntata a una raffinatezza raggiunta con semplicità. Il vertice di questa poetica è rappresentato dagli haiku (poesia di 5-7-5 sillabe) di Matsuo Basho (1644-1694).

Furuike ya
kawazu tobikomu
mizu no oto.

Antico stagno
una rana si tuffa
d’acqua baruffa.

Yamaji kite
naniyara yukashi
sumiregusa.

Lungo il sentiero
raffinata cosetta
fior di violetta.

Yagate shinu
keshiki wa miezu
semi no koe.

Non sembra eppure
fra breve la cicala
col canto esala.
[Matsuo Basho, Basho kushu, trad. di Cristiano Martorella]

4. Antologia della poesia giapponese per bambini
Arriviamo infine alla trattazione di un interessante libro che è davvero pertinente. Si tratta di un’antologia della poesia giapponese per bambini consigliata alle scuole elementari. Ooi poponta è il titolo del volume ispirato a una poesia della raccolta. I curatori sono Noriko Ibaragi, Makoto Ooka, Hiroshi Kawasaki, Eriko Kishida e Shuntaro Tanikawa, l’editore Fukuinkan Shoten. Leggiamo Tanpopo di Hiroshi Kawasaki:

Tanti fiori di dente di leone volano via.
Ognuno ha il suo nome.
Ehi ! Taponpo.
Ehi ! Poponta.
Ehi ! Pontato.
Ehi ! Potapon.
Non cadete nel fiume.
[Trad. di Yuki Kawazoe]

Il dente di leone (in giapponese tanpopo) è quella piantina nei prati chiamata popolarmente soffione (nome scient. Taraxacum). Essa è tipica perché rilascia nell’aria i suoi semi con un leggero soffio sui fiori. Nella poesia di Kawasaki ogni seme ha il suo nome. Il rimando all’umanità è evidente. Anche se sembriamo uguali ciascuno ha il suo nome, personalità e storia, e l’augurio è che non si perda nel fiume. L’uguaglianza si fonda sul rispetto della diversità perché uguaglianza non deve significare omologazione.

5. Alla pioggia non si arrende

Il più importante autore giapponese di racconti per ragazzi fu Kenji Miyazawa (1896-1933). Egli scrisse anche numerose poesie che per modestia, e per la forma inconsueta e innovativa rispetto ai precedenti generi, chiamò shinso sketch (abbozzi dell’immaginazione). La poesia più famosa di Miyazawa è Ame ni mo makezu (Alla pioggia non si arrende) in cui descrive l'ideale di uomo secondo la sua riflessione esistenziale e religiosa.

Alla pioggia non si arrende,
al vento non si arrende,
alla neve e al caldo estivo non si arrende,
ha un fisico robusto.
Mai adirato,
non ha smanie,
sempre sereno e sorridente.
Ogni giorno mangia settanta grammi di riso integrale,
il miso e un po' di verdura.
In tutti i casi
non bada a se stesso
per conoscere, capire
e non dimenticare.
Vive in una piccola capanna di paglia
all'ombra di un bosco di pini.
Se ad est c'è un bambino ammalato
va ad assisterlo,
se ad ovest c'è una madre stanca
va per portarle quei fasci di riso,
se a sud c'è un moribondo
va per dirgli di non avere paura,
se a nord c'è un litigio o un contenzioso
va a dire di lasciar perdere le cose insignificanti.
Quando è periodo di siccità piange,
quando è estate fredda cammina preoccupato.
Da tutti viene detto un sempliciotto,
non è mai lodato,
però non è nemmeno causa di sofferenza.
Io voglio diventare
una persona così.
[Trad. di Cristiano Martorella]

La poesia giapponese cambia forma ma non tradisce i suoi ideali: l’assoluta libertà dell’uomo attraverso la poetica, autentica risorsa dell’umanità.


Bibliografia

AA.VV., Ooi poponta, Fukuinkan, Tokyo, 2001.
AA.VV., Miyazawa Kenji no sekaiten, Asahi Shinbunsha, Tokyo,1995.
Kato, Shuichi, Storia della letteratura giapponese, Marsilio, Venezia, 1989.
Matsuo, Basho, Basho kushu, Iwanami Shoten, Tokyo,1962.
Miyazawa, Kenji, Shin kohon Miyazawa Kenji zenshu, Chikuma Shobo, Tokyo, 1996.