sabato 2 ottobre 2010

Takashi Murakami e manga

Lettera pubblicata dal quotidiano "La Stampa".
Cfr. Cristiano Martorella, Chi critica i manga non capisce d'arte, in "La Stampa", mercoledì 29 settembre 2010.

Chi critica i manga non capisce d'arte
Due opere dell'artista Takashi Murakami sono state vendute da Sotheby's a un prezzo superiore alla quotazione iniziale: "Koumokkun" a 474 mila euro, e "Eye love superflat" a 289 mila euro. Takashi Murakami è divenuto famoso per le sue opere che si ispirano all'arte hentai e alla cultura pop giapponese contemporanea, in particolare ai manga. Ciò dimostra, se ce ne fosse ancora bisogno, che le critiche frettolose a questo genere di opere provengono soltanto dall'ignoranza gretta e dall'incomprensione di un genere che si sta affermando a livello mondiale. Infatti nel nostro Paese non sono mai mancate le voci critiche, quasi sempre eccessive, nei confronti dei manga giapponesi accusati delle peggiori perversioni.
Cristiano Martorella

sabato 18 settembre 2010

I mostri di Go Nagai

Kemono, i mostri di Nagai Go
di Cristiano Martorella

1 marzo 2005. L’idea che i disegni animati siano prodotti inferiori e infantili esclusivamente dedicati ai bambini è un vecchio e irriducibile pregiudizio. Nonostante i bravissimi critici d’animazione che ci si sono in Italia, impegnati a contestare duramente una simile scempiaggine, questa stupida idea è ancora lontana dall’essere debellata. Viceversa in Giappone si è sempre avuto il massimo rispetto per l’animazione, e anche i prodotti per bambini hanno goduto di un’attenzione maggiore e di contenuti più evoluti. Un esempio lampante è fornito dal lavoro di Nagai Go, un autentico classico della storia dell’animazione giapponese. Nelle sue opere la figura del mostro è sempre complessa e articolata, con una ricchezza che è derivata direttamente dal grande repertorio del fantastico nipponico. Qui ci concentreremo sui mostri delle serie robotiche, forse le più note in Italia.

In giapponese la parola kemono significa mostro, bestia. Kemono si può dire anche ju nella lettura on, ed essere usato in vari composti come vedremo in seguito. In base a distinzioni grafiche e alle diversità dei nomi, possiamo individuare una tipologia (1) per i mostri di Nagai Go.

1) Mostri meccanici
2) Mostri organici mutanti
3) Mostri spaziali
4) Mostri mitologici
5) Mostri preistorici

Analizziamo la tipologia in base alle storie e alle vicende degli anime. Risulterà facile verificare e comprendere su quali elementi si basa questa classificazione dei mostri di Nagai Go.

I mostri meccanici: megarobot

I mostri meccanici sono quelli che inaugurano le fortunate serie di Mazinga Z, in giapponese Majinga Zetto (2). Creato nel 1972 dalla fervida immaginazione di Nagai Go, Mazinga Z è il secondo “giant robot” della storia dell’animazione giapponese, essendo stato preceduto sullo schermo da Super Robot 28. I nemici di Mazinga Z sono gli automi, i robot inviati dal Dottor Inferno. Questi robot, in giapponese robotto oppure robo, hanno aspetto antropomorfo, simili a giganteschi guerrieri di ferro, e possono muoversi indipendentemente per eseguire i comandi e le missioni pianificate dal loro padrone. Si tratta di macchine che possiedono un grande potere distruttivo, però mancano di intelligenza e soprattutto sentimento. Il loro avversario, Mazinga Z, viene comandato da un dispositivo (pilder) nella testa del robot che contiene il pilota, fondendo così le caratteristiche umane ai poteri del robot. Questa combinazione risulta vincente perché gli eroi giapponesi, a differenza degli eroi americani, non vincono con l’uso della forza bruta, ma soltanto grazie alla volontà e alla forza morale che infonde coraggio e spirito di sacrificio.
I mostri meccanici, autentici robot, sono in questa fase molto simili alle macchine di altri film, disegni animati e fumetti dell’epoca (3). Essi sono creatura meccaniche con movimenti rigidi e impacciati, strutture pesanti di metallo scuro, leve e ingranaggi consumati dall’attrito. Insomma, come cantato nella sigla giapponese intitolata Majinga Zetto, il robot è kuroganeshiro, letteralmente “una fortezza di metallo nero”. Nonostante ciò le creature del Dottor Inferno sono sempre dei mostri terrificanti e pericolosi. La loro grandezza spropositata e le armi che possiedono hanno procurato loro una terribile fama e il nome di megarobot. D’altronde i megarobot hanno un aspetto guerriero inimitabile. Costruiti dagli antichi micenei con una tecnologia sconosciuta, sono dotati di armi offensive da taglio (spade, punteruoli, tridenti), missili e razzi di vario tipo, armi immobilizzanti (reti e catene), raggi ultrasonici, scariche elettriche, armi contundenti (magli, mazze ferrate e sfere di ferro), bombe a caduta libera. Un arsenale sufficiente a conquistare il mondo e distruggerlo. I megarobot restano comunque macchine simili ad aerei, carri armati, automi con braccia dotate di tenaglie, strumenti di guerra privi di raffinatezza. Quando vengono colpiti dai raggi di calore (l’arma chiamata breast fire di Mazinga Z) essi si fondono. Investiti dall’uragano di ruggine (rust hurricane) essi diventano rossi per la corrosione e si accartocciano. Sono macchine e così vengono distrutte. Vanno in mille pezzi quando sono investiti dal pugno al razzo (rocket punch). La loro forza è anche la loro debolezza.

I mostri meccanici: ufo robot

Altre macchine, altri robot, questa volta provenienti dallo spazio, sono i dischi volanti mostri. Si chiamano enbanju, letteralmente “disco mostro”. I dischi mostri sono anche detti ufo robot (yufo, nella trascrizione giapponese). Essi si contrappongono a Goldrake (nella versione giapponese Grendizer, trascritto anche Gurendaiza), un robot combinabile con un’astronave disco volante proveniente dal pianeta Fleed e divenuto difensore della Terra. I dischi mostri (enbanju) non hanno molte versioni e varianti. Sono dischi volanti piatti che possono aprirsi facendo uscire un mostro robot dotato di artigli e armi. Ricordiamone alcuni tipi. Enbanju Jinjin è un disco che contiene all’interno una specie di robot granchio dotato di lunghe chele con cui afferra e blocca l’avversario. Enbanju Gubigubi si apre componendosi in quattro grossi dischi appoggiati su un enorme artiglio. I dischi esterni sono dotati di punte e ruotano divenendo armi d’offesa. Più interessante è Enbanju Koakoa, un ufo robot costituito da tre sfere di luccicante metallo che volano a una certa distanza fra di loro avvolte da un plasma infuocato. Questo plasma ha la duplice funzione di fornire una protezione come scudo e d’essere un’arma da lanciare sul nemico.

I mostri organici mutanti: sentoju

Ufo robot e megarobot sono mostri meccanici, invece sono mostri organici le creature mutanti di Micene (Mykonos). La storia fantascientifica narra che gli antichi abitanti di Micene erano dei terribili guerrieri che usando armi nucleari subirono spaventose mutazioni genetiche divenendo mostri bestiali. In questo caso la parola giapponese kemono è appropriata. Infatti kemono in inglese sarebbe tradotto con beast. I mostri micenei sono creature ibride fra umani e animali come tigri, rettili, pesci e insetti. Essi sono chiamati sentoju ossia “mostro da combattimento”. Bisogna premettere che la distinzione fra mostro organico e mostro meccanico nelle storie di Nagai Go non è ben netta. Spesso la creatura è un cyborg dove carne e sangue si mischiano a strutture metalliche. Soltanto lo studio della trama e l’osservazione dei particolari può aiutare a definire meglio il mostro. I mostri mutanti chiamati sentoju non sono macchine, ma possono parlare, pensare e agire liberamente provando sentimenti, in particolare l’odio, l’ira, la vendetta, lo stupore, la soddisfazione nell’infliggere il dolore, il disprezzo dell’avversario, la presunzione e la tracotanza. Insomma, i sentimenti adatti all’animo di un mostro. Il capo dei mostri combattenti è il Generale Nero, nell’originale giapponese Ankoku Daishogun (Grande Generale dell’Oscurità), una creatura antropomorfa dotata di corazza da samurai e una faccia parlante nel centro del petto, armato di spada con catena, calza ai piedi due grossi corni. Il Generale Nero dispone di sette armate infernali poste al centro della Terra, seppellite nelle profondità delle viscere del pianeta fra fiumi di lava, miasmi di gas tossici e caverne tenebrose. Comandante della più forte armata è Juma Shogun, letteralmente il Bestiale Generale Demoniaco, essere con un busto umano con una criniera leonina fissato su un corpo di drago alato. Al centro del petto il mostro Juma ha il volto di un insetto dotato di rostro e al posto della mano destra ha una testa quasi scheletrica. Nell’altra mano impugna una scure. Altri mostri combattenti sono Badian, Sharaga, Raigon, Suraba, Dante. Sharaga, il cui nome intero è Hachuruikei Sentoju Sharaga (Mostro combattente dall’aspetto di rettile), è una serpe con una testa di donna su un’estremità della coda, e dall’altra parte il capo di un cobra. Sputa un veleno capace di fondere qualsiasi metallo. Badian è un uccello simile a un avvoltoio con la testa di un vecchio al centro del petto. Suraba è un mostro pesce con una faccia di donna. Raigon, il cui nome intero è Konchukei Sentoju Raigon, è un orribile insetto gigante. Dante, il più interessante e originale, è un Akuryo, cioè un mostro demone costituito da un grosso mantello sospeso in aria con due braccia scheletriche e una testa azzurra piccola sormontata da un teschio. Egli è capace di creare un vortice fortissimo sotto il mantello e investire così l’avversario.

I mostri spaziali: uchu kaiju

A metà strada fra la macchina e l’organismo vivente, i mostri spaziali, in giapponese uchu kaiju, uniscono le caratteristiche cibernetiche che rendono potente il mostro alla natura intelligente e feroce dell’animale. Questi cyborg mostruosi sono creati da extraterrestri spietati che vogliono conquistare la Terra. Hanno poteri straordinari che provengono dalla tecnologia aliena e dalle proprietà insite nella loro struttura.
Kumaju Gurangen, letteralmente mostro demoniaco del cielo, è una ributtante creatura color roseo violaceo con due braccia e due gambe tentacolari capaci di stritolare l’avversario. Ketsugoju Bongu è un mostro combinabile costituito da pezzi di aerei e carri armati capaci di staccarsi, attaccarsi e ricomporsi. Dalle canne dei cannoni lancia getti di fuoco e dalle gambe partono missili. Kohaju Pikudoron è un mostro temibile. Pikudoron è il mostro splendente dotato su tutto il corpo di un manto di luce dorata che è uno schermo invalicabile. Nessuna arma può scalfirlo e i raggi radioattivi vengono assorbiti e tramutati in energia che potenzia il mostro. Lo stesso manto luminoso può scagliare le frecce di luce capaci di far esplodere qualsiasi robot. Spaventoso e inarrestabile è Girugirugan, un mostro spaziale (uchu kaiju) invincibile. Si nutre di ferro accrescendo la sua mole. Nato da un uovo posato da un disco volante, ha inizialmente le sembianze di un dinosauro. Poi dal suo corpo spunta il busto di un mostro antropomorfo con la testa a forma di stella. Assorbendo l’energia necessaria completa la trasformazione. Girugirugan è un mostro immenso di colore arancione, con due braccia dotate di mani con dita lanciamissili, piedi con artigli, ali gigantesche di pipistrello che emettono luce abbagliante, due enormi falci al fianco. Soltanto Getter Robot e Great Mazinger alleati insieme riusciranno a sconfiggerlo dopo una battaglia estenuante.

I mostri mitologici

La passione di Nagai Go per i mostri mitologici è confermata da molti episodi delle serie a disegni animati. Il mostro mitologico più citato è Yamata no Orochi, letteralmente “il grosso serpente dalle otto biforcazioni”. Si tratta del mostro della leggenda giapponese, il gigantesco serpente con otto teste e otto code che fu sconfitto dal dio Susanoo. Nagai Go lo riporta in vita più volte. Nella serie Jeeg Robot d’acciaio (in giapponese Kotetsu Jigu), il mostro Orochi è un’astronave del regno degli Haniwa. Invece nel film Kessen Daikaiju, il mostro Orochi è resuscitato nutrendosi del petrolio che l’inquinamento ha riversato in mare. Nella più grande e spettacolare battaglia degli eroi giapponesi è impegnata un’intera armata di robot (robo gundan) fra cui Goldrake, Great Mazinger e Getter Robot G. Il mostro è insensibile ai missili e la sua mole immensa lo rende addirittura resistente alle armi più potenti. Addirittura Tetsuya, il pilota del Great Mazinger, verrà ingoiato col suo robot e uscirà fortunosamente attraversando l’intestino. L’unico modo per sconfiggerlo è facendogli ingoiare i serbatoi del gas delle raffinerie per innescare un’esplosione immane accesa dai raggi dei robot.
La serie di Jeeg Robot d’acciaio, già citata in precedenza, contiene altri importanti e numerosi riferimenti alla mitologia. I nemici di Jeeg sono gli Haniwa (Haniwa genjin), un’antica popolazione del Giappone realmente esistita intorno al III-VI secolo d.C., ripresa da Nagai Go in un’ottica quasi horror. Infatti nell’anime essi sono rappresentati come zombi che spuntano dal terreno, oppure fantasmi terrificanti. Anche la regina Himika, nell’originale giapponese Himiko, è una creatura mostruosa che unisce l’antico fascino e la bellezza della sciamana alla cattiveria dell’essere reietto e dimenticato.
Un mostro famosissimo di Nagai Go tratto dalla mitologia è Silen. Silen, in alcuni adattamenti italiani Silene, è la trascrizione modificata della parola siren ossia sirena. In giapponese il suo nome è Shirenu. L’autore si è ispirato al mito originario dell’antica Grecia, quando le sirene erano raffigurate come creature metà uccello e metà donna, prima che si affermasse la versione moderna metà pesce e metà donna sostenuta dalla fiaba di Hans Christian Andersen. Silen ha due grandi ali scure attaccate sul capo, e artigli alle mani e ai piedi. Il colore del suo corpo è verde. Nonostante tanta mostruosità il suo corpo conserva la linea seducente di una donna con gambe snelle, vita stretta, seno prosperoso. Il volto è ben proporzionato con un naso piccolo, occhi espressivi e grandi, bocca carnosa. L’intera storia dei disegni animati di Devilman, in giapponese Debiruman, riprende vicende tratte da leggende varie. La tribù dei demoni è un concentrato di mostri mitologici attinti dalla tradizione giapponese e dalla narrativa straniera. Ci sono anche creazioni originali come Bugo, un mostro orripilante di consistenza gelatinosa che cambia forma passando dall’aspetto di una manta con innumerevoli occhi sparsi sul dorso alla sembianza di una viscida lumaca con un corno dotato di una bocca dentata e molli tentacoli strangolatori.
Prima di passare avanti, è doverosa una precisazione. I rapporti fra animazione e cinema giapponese sono molto forti e con una continuità sconosciuta altrove. Si capisce così come i mostri degli anime siano debitori al genere cinematografico dei kaiju eiga (film di mostri). Innanzitutto è fondamentale il contributo del regista Honda Ishiro (4), autore di Godzilla (1954), il celebre mostro dalle sembianze di drago (il nome giapponese è Gojira ed è stato creato fondendo le parole gorira e kujira, gorilla e balena). Godzilla è importante perché introduce un tema ripreso in seguito dalla fantascienza. Godzilla è un mostro mutante, un dinosauro risvegliato dall’esplosione di una bomba atomica sperimentata negli atolli dell’Oceano Pacifico. Le radiazioni hanno reso Godzilla più forte e capace di incenerire ogni cosa con un getto infuocato fuoriuscito dalla bocca. La mutazione è una variabile che arricchisce la storia, inoltre aggiunge un elemento di complessità nella genesi della creature mostruose.

I mostri preistorici: i megasauri

I dinosauri, mostri preistorici di un lontano passato, tornano sulla Terra per distruggerla nella serie intitolata Getter Robot (nell’adattamento italiano Space Robot). Il mostro di questa particolare serie animata non è un robot meccanico, nemmeno una creatura fantastica, ma veri animali che hanno conservato gli istinti bestiali, soprattutto l’intelligenza capace di sfruttare la tecnologia. I megasauri utilizzano armi e corazze per diventare mecha sauri, ossia dinosauri potenziati dalla tecnologia. Così ritorna un tema tipico dei disegni animati di Nagai Go: il mecha corpo. Il robot è una armatura che aumenta la forza limitata degli esseri viventi. Però ciò che determina l’autentica potenza è la forza spirituale. La sigla giapponese di Getter Robot è chiarissima. Mitsu no kokoro ga hitotsu ni nareba, hitotsu no seigi wa hyakuman power. Se tre cuori diventano uno solo, una sola giustizia con la forza di un milione.
Un altro aspetto della serie è interessante. I tre velivoli che compongono Getter Robot hanno nomi di animali, animali totemici direbbero gli antropologi: Eagle, Jaguar, Bear (Aquila, Giaguaro, Orso). Lo stesso robot Getter One ha l’aspetto di un drago ed è armato di scure a forma di clava preistorica. Così come Mazinga Z, anche Getter Robot oppone alla mostruosità dei suoi nemici una forza altrettanto terribile, soprattutto simile. Come negli schemi concettuali scoperti dagli antropologi nei popoli antichi, l’eroe assorbe la forza del nemico che sconfigge, così anche le sue caratteristiche. Il mostro non è qualcosa di lontano e diverso, ma qualcosa che convive con noi.

Le considerazioni sull’educazione dei bambini

Il discorso sui mostri di Nagai Go è terminato, e il fan dell’animazione potrebbe finire qui la lettura. Però come educatori e divulgatori non possiamo esimerci dal considerare i risvolti psicologici della figura del mostro. Purtroppo in Italia sta avvenendo qualcosa che è estremamente grave. Un gruppo di psicologi, organizzati politicamente e sovvenzionati dalle istituzioni, sta affermando da decenni che i disegni animati giapponesi sarebbero dannosi per la salute dei bambini. Queste dichiarazioni sono profondamente false e smentite dalle ricerche serie di psicologi meno faziosi. I risultati concreti di questa campagna diffamatoria sono stati due: il trauma dei bambini nati negli anni ’70 che hanno subito la proibizione e la censura da parte delle istituzioni del loro programma televisivo preferito; la nomina di questi sedicenti esperti in commissioni di controllo e censura dell’immaginario infantile. Sembrerà straordinario eppure nessun regime autoritario ha posseduto strumenti di repressione infantile come quelli organizzati dalle odierne democrazie liberali. La spiegazione è semplice. Si può tollerare e ignorare questa repressione perché rivolta contro una cultura straniera (la cultura giapponese) e applicata in nome della difesa della salute dei bambini. Si tratta di una censura conciliante, una violenza edulcorata e rassicurante. Essa preferisce il consenso al posto della coercizione. La censura odierna è molto diversa così da quella del passato.
Per fortuna non tutti gli psicologi sono mitomani esaltati in cerca di una facile carriera a scapito della libertà dei bambini. C’è ancora chi applica criteri scientifici alle analisi che svolge, senza confondere la politica e l’ideologia con la psicologia. Gli psicologi più avveduti hanno sempre rimarcato l’importanza formativa nell’educazione del bambino data dal confronto con la figura del mostro rappresentato nella narrativa. Fu soprattutto Bruno Bettelheim (5) a spiegare la funzione del mostro nella fiaba come elemento propositivo della psicologia evolutiva. Secondo Bettelheim, le storie di mostri aiutano i bambini ad affrontare le proprie paure e vincerle. Più i mostri sono spaventosi, meglio è. Così il bambino impara a sconfiggere ogni minaccia. Il bambino, grazie alla sua crescente capacità di affrontare il mondo, può avere un maggiore contatto con gli altri e con più ampi aspetti della realtà. Ricordiamo che il bambino ha bisogno soprattutto di ricevere suggerimenti in forma simbolica circa il modo di affrontare i problemi. Il bambino si identifica con l’eroe delle storie, e grazie a questa identificazione egli immagina di sopportare con l’eroe prove e tribolazioni, e trionfa con lui quando coglie la vittoria. Questo ci insegna la psicoanalisi di Bruno Bettelheim (6). Allora ci si chiede perché ci siano degli psicologi che vogliono impedire ai bambini di crescere, proibendo i disegni animati giapponesi e i loro mostri necessari allo sviluppo infantile. Ignoranza e malafede sono i peggiori mostri che l’umanità debba affrontare. Combatterli è il dovere di ogni uomo o donna che voglia avere ancora speranza nel futuro.

Note

1. Questa tipologia non è obbligatoria e rigida. Chiunque può semplificarla o arricchirla. Risulta comunque utile per la comprensione del genere.
2. Alcuni dei mostri che citeremo sono apparsi in diverse vecchie pellicole cinematografiche poi riproposte anche in VHS. Versioni italiane: Ufo Robot contro gli invasori spaziali, regia di Mori Toshio, Cinehollywood, Milano, 1996; Mazinga contro gli Ufo Robot, regia di Mori Toshio, Cinehollywood, Milano, 1995. Versioni originali: Gureto Majinga tai Getta Robo G, Toei Doga, Tokyo, 1975; Yufo Robo Gurendaiza tai Gureto Majinga, Toei Doga, Tokyo, 1976; Gurendaiza, Getta Robo G, Gureto Majinga. Kessen Daikaiju, Toei Doga, Tokyo, 1976; Majinga Z tai Debiruman, Toei Doga, Tokyo, 1973; Majinga Z tai Ankoku Daishogun, Toei Doga, Tokyo, 1974.
3. Un esempio e modello di robot nello stile degli anni ’50 e ’60 dello scorso secolo è Robbie (spesso scritto anche Robby) dei film Il pianeta proibito (1956) e Il robot e lo Sputnik (1957). Questo modello è rimasto impresso nell’immaginario collettivo finché non si affermò l’androide dalle sembianze umane descritto in Terminator (1984).
4. Sui valori educativi dei film di Honda Ishiro si consulti il seguente articolo: Cristiano Martorella, Dai dischi volanti a Godzilla, in “LG Argomenti”, n.4, anno XXXVI, ottobre-dicembre 2000, pp.22-27.
5. Cfr. Bruno Bettelheim, Il mondo incantato. Uso, importanza e significati psicoanalitici delle fiabe, Feltrinelli, Milano, 1984.
6. Ci piace ricordare che Bruno Bettelheim ha combattuto realmente contro i mostri della storia. Infatti fu internato per un anno nei campi di concentramento di Dachau e Buchenwald. Quest’uomo è stato in grado di capire cosa sono i mostri e come affrontarli perché li ha visti con i suoi occhi.

Bibliografia

Ghilardi, Marcello, Cuore e acciaio. Estetica dell’animazione giapponese, Esedra, Padova, 2003.
Lurcat, Liliane, Il bambino e la televisione. A cinque anni solo con Goldrake, Armando, Roma, 1985.
Martini, Alessia, I robottoni. Dalle corna di Go Nagai, Edizioni Il Foglio, Piombino, 2004.
Martorella, Cristiano, Dai dischi volanti a Godzilla, in “LG Argomenti”, n.4, anno XXXVI, ottobre-dicembre 2000.
Martorella, Cristiano, A scuola con i Pokémon, in “Bambini”, n.9, anno XVII, novembre 2001.
Martorella, Cristiano, Quando i Pokémon sono più educativi degli educatori, in “Kappa Magazine”, n.104, febbraio 2001.
Miyahara, Kojiro e Ogino Masahiro, Manga no shakaigaku. Sekaishisosha, Kyoto, 2001.
Pellitteri, Marco, Non esistono cartoon cattivi!, in “Liber”, n.46, aprile-giugno 2000.
Pellitteri, Marco, Dalla parte dei giapponesi. Da Heidi a Goldrake, in “Il Pepeverde”, n. 3, anno I, 2000.
Pellitteri, Marco, Le nuove frontiere dell’immaginario, in “LG Argomenti”, n.4, anno XXXVI, ottobre-dicembre 2000.
Pellitteri, Marco, Mazinga Nostalgia. Storia, valori e linguaggi della Goldrake-generation, Castelvecchi, Roma, 1999.
Pellitteri, Marco (a cura di), Anatomia di Pokémon. Cultura di massa ed estetica dell’effimero fra pedagogia e globalizzazione, Seam, Roma, 2002.
Pellitteri, Marco, Conoscere l’animazione. Forme, linguaggi e pedagogie del cinema animato per ragazzi, Valore Scuola, Roma, 2004.
Prandoni, Francesco, Anime al cinema. Storia del cinema d’animazione giapponese 1917-1995,Yamato Video, Milano, 1999.
Raffaelli, Luca, Le anime disegnate. Castelvecchi, Roma, 1994.
Yamaguchi, Yasuo, Nihon anime zenshi, Ten Books, Tokyo, 2004.

mercoledì 8 settembre 2010

La creazione e il buddhismo

Intervento sul tema della creazione e il buddhismo pubblicato dal quotidiano "Il Secolo XIX".
Cfr. Cristiano Martorella, La creazione e l'ignoranza, in "Il Secolo XIX", mercoledì 8 settembre 2010, p.41.

La creazione e l'ignoranza
Le lettere pubblicate da "Il Secolo XIX" circa la questione della creazione dell'universo tendono a essere troppo sbrigative e sbilanciate a favore di un'unica visione ossia la credenza della necessità di una divinità creatrice. Oltre a non spiegare niente circa la natura di questa entità creatrice, si cade nel paradosso e nella giustificazione dell'ignoranza, ossia si afferma che conoscere Dio non è possibile. Inoltre queste teorie peccano di etnocentrismo affermando che tutti i popoli credono in una divinità creatrice. Ciò è assolutamente falso. Milioni di buddhisti credono che l'universo non sia stato mai creato e mai finirà, ma sia qualcosa eternamente in trasformazione. Buddha stesso viene spesso identificato con l'universo, e nessun buddhista sostiene che c'è una divinità che lo crea. Così Hakuseki Arai, quando incontrò il missionario Giovanni Battista Sidotti, confutò la credenza in Dio. Egli osservò che se Dio ha creato l'universo, allora chi ha creato Dio? E se Dio è eterno e non è stato creato, perché non si può dire altrettanto dell'universo? La confutazione è ancora oggi validissima.
Cristiano Martorella

martedì 31 agosto 2010

Una guerra spietata

La rivista "Storia Militare" ha pubblicato un interessante e documentato articolo sulla Guerra del Pacifico combattuta dai giapponesi, occupandosi dei risvolti socio-psicologici. L'articolo è consigliato a tutti e non ha eccessive difficoltà tecniche che ne precludano la comprensione a chi non è cultore di storia militare.

Giuseppe Federico Ghergo, Una guerra spietata, in "Storia Militare", n.204, anno XVIII, settembre 2010, pp.4-15.

L'autore dell'articolo è Giuseppe Federico Ghergo, e merita un apprezzamento particolare per l'ottima documentazione e l'interessante taglio dell'articolo che fornisce una visione degli aspetti psicologici della guerra, mettendo in luce i reciproci pregiudizi.
Cristiano Martorella

lunedì 23 agosto 2010

Nissho Inoue

Nissho Inoue. L'apice del terrorismo buddhista
di Cristiano Martorella

23 agosto 2010. Nissho Inoue (1886-1967) fu un predicatore e seguace del buddhismo di Nichiren, ma anche un ideologo e attivista politico dell'estremismo nazionalista più esaltato e intransigente, e soprattutto fu un organizzatore di attentati terroristici. La sua fede buddhista influenzò in modo inusitato la sua concezione sociale determinando il fanatismo esasperato che fondeva credenze religiose e politica. Nissho Inoue (1) ebbe quindi un nefasto ascendente nella società giapponese degli anni '30, persuadendo molti alle scelte politiche che portarono alla svolta autoritaria a favore del regime militarista.
Nissho Inoue fu un fautore della concezione autoritaria e nazionalista della politica giapponese che si oppose alla nascente democrazia dell'era Taisho (1912-1926). Egli era un sostenitore del kokutai (stato nazionale) di cui forniva una sua visione integrando aspetti culturali disparati, in primo luogo la concezione nazionalista del buddhismo di Nichiren, e la convinzione che fosse l'unica religione corretta da imporre e diffondere nel mondo. Ciò fornì una solida giustificazione alle imprese di conquista compiute dall'imperialismo giapponese tramite le truppe di invasione dell'esercito.
Molti ufficiali dell'esercito imperiale (teikoku rikugun) erano infatti devoti seguaci del buddhismo di Nichiren. Fra questi militari il più famoso, che interpretò il buddhismo in chiave imperialista, fu Kanji Ishiwara (1889-1949). Anche Kanji Ishiwara si servì di metodi terroristici per sostenere la causa dei militari, come nel caso dell'attentato del 18 settembre 1931 che portò all'invasione della Manciuria. L'episodio è noto come Manshu jihen (incidente della Manciuria), e nei libri di storia occidentali viene citato come l'incidente di Mukden.
Questa concezione fanatica ed estremista del buddhismo ebbe risvolti drammatici. Gli avversari di Nissho Inoue furono individuati fra i politici democratici, in particolare fra i membri del governo e gli esponenti della borghesia liberale. I metodi usati per eliminare questi oppositori furono davvero drastici e devastanti. Nissho Inoue costituì un'organizzazione terroristica chiamata Ketsumeidan (Gruppo del giuramento col sangue), reclutando volontari per commettere attentati e omicidi politici. Il motto dei terroristi fu ichinin issatsu, con cui si indicava "un omicidio a testa". Il gruppo era composto da una quindicina di giovani delle classi sociali meno agiate. Le vittime eccellenti dei terroristi furono l'ex ministro delle Finanze e capo del Minseito (Partito Democratico), Junnosuke Inoue, ucciso il 9 febbraio 1932, e Takuma Dan, direttore generale della Mitsui, colpito il 5 marzo 1932. Junnosuke Inoue, banchiere e uomo politico, si attirò l'ostilità dell'esercito per la sua politica di rigore e il suo rifiuto di aumentare le spese militari. Ciò gli costò la vita.
L'avversione di Nissho Inoue nei confronti della borghesia costituisce un tratto saliente dei movimenti di estrema destra giapponesi. In Giappone, infatti, una corrente nazionalista si ispirava al ruralismo, una concezione politica tradizionalista e conservatrice. Il ruralismo (nohonshugi) poneva al centro della società la comunità agricola, con il suo spirito di autogoverno, e la tendenza a mantenere l'armonia sociale, al contrario del capitalismo che esaltava la competizione e l'individualismo.
Davvero sorprendente nell'attività terroristica di Nissho Inoue è l'adattamento del buddhismo piegato agli scopi criminali. Ciò fu possibile perché egli fece ampio uso dell'estremismo fanatico di Nichiren (2) che nei suoi scritti, come per esempio Kaimokusho (Aprire gli occhi) e Hokekyo heiho no koto (La strategia del Sutra del Loto) esaltava la violenza e la lotta armata. Nichiren sosteneva la lotta armata, e le sue stesse parole sono la più emblematica testimonianza di ciò. Egli scrisse che "l'essenza della strategia militare (heiho) e dell'arte della spada derivano dalla legge mistica (myoho)". Così Nichiren, nel gosho intitolato La strategia del Sutra del Loto, affermava il valore delle virtù militari e della lotta armata. Una inammissibile assurdità ed eresia per i buddhisti pacifisti.

Note

1. Prima che diventasse un attivista, Nissho Inoue era conosciuto col nome di Akira Inoue, ed era nato a Kawaba nella prefettura di Gunma nel 1886. Nissho era il nome buddhista acquisito dopo la vocazione. Questo nome è composto da due kanji, ni e sho. Il primo significa sole (così come nel nome di Nichiren, ovvero loto del sole). Il secondo è lo stesso del verbo mesu (invitare, chiamare). Dunque Nissho significa all'incirca "chiamato dal sole".
2. Sulla figura storica di Nichiren gli studiosi hanno scritto abbastanza, tanto da smentire le irrealistiche versioni condite di miracoli e prodigi narrate dai suoi seguaci. Si leggano autori come George Bailey Sansom, Leonardo Vittorio Arena, Giuseppe Jiso Forzani, Massimo Raveri, Philip Yampolsky, Giovanni Filoramo.

Bibliografia

Arena, Leonardo Vittorio, Samurai. Ascesa e declino di una grande casta di guerrieri, Arnoldo Mondadori, Milano, 2002.
Arena, Leonardo Vittorio, Lo spirito del Giappone. La filosofia del Sol Levante dalle origini ai giorni nostri, Rizzoli, Milano, 2008.
Filoramo, Giovanni (a cura di), Dizionario delle religioni, Einaudi, Torino, 1993.
Forzani, Giuseppe, I fiori del vuoto. Introduzione alla filosofia giapponese, Bollati Boringhieri, Torino, 2006.
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Yampolsky, Philip, Selected Writings of Nichiren, Columbia University Press, New York, 1990.

martedì 10 agosto 2010

I filosofi giapponesi e la logica

I filosofi giapponesi e la logica
di Cristiano Martorella

10 agosto 2010. L'epoca d'oro della filosofia giapponese ebbe il suo apice nella prima metà del XX secolo, e coincise con la rivolta contro il modello culturale occidentale (1). L'idea che la civiltà giapponese dovesse avere un proprio pensiero autonomo fu sostenuta con forza dai filosofi giapponesi, tuttavia il risultato corrispose a una sintesi della filosofia europea con la tradizione orientale, cioè con lo sviluppo della filosofia nippo-europea (tetsugaku) che era stata già fondata nel secolo precedente da Nishi Amane (2).
In questo quadro si inserisce l'analisi e la critica alla logica occidentale avanzata dai filosofi giapponesi (3). Essendo il principio di non-contraddizione uno dei punti fondamentali della logica del pensiero occidentale, è naturale che sia anche uno dei più contestati. La critica più autorevole al principio di non-contraddizione nella filosofia contemporanea giapponese è stata esposta da Nishida Kitaro (1870-1945).
Il pensiero di Nishida non è un tentativo di elaborazione isolata della filosofia giapponese, ma al contrario, deve molto alla filosofia idealista tedesca, in particolare Hegel, Fichte, Schelling, Schleiermacher ma anche a Kant, Hume, Locke, Spinoza, Leibniz, Schopenhauer, Lotze e Hartmann (abbiamo documentazione certa nei diari e nella corrispondenza che ci testimoniano i suoi interessi) (4).
Si sa quanto Nishida fosse impegnato nello studio dei testi filosofici europei, tanto da essere diventata leggendaria la sua figura di studioso che trascorreva le notti immerso nella lettura. Non c'è quindi motivo di sorpresa se si trova in Nishida una ripresa di Hegel in opposizione al principio di non-contraddizione (5).
Per Nishida la contraddizione fa parte della dialettica della realtà. Essendo la contraddizione costitutiva dell'essere, non la si può considerare come un qualcosa a parte. La contraddizione non va esclusa dalla realtà, così come interpreta il senso comune, poiché è posta proprio al suo interno. Perciò Nishida prova un autentico senso di rifiuto nei confronti della contraddizione come presentata dalla tradizione occidentale. E come ha anche mostrato Löwith, abbiamo dovuto attendere Hegel e Nietzsche perché avvenisse un cambiamento profondo nel pensiero filosofico in Occidente.
Il fatto storico che per millenni la filosofia europea sia rimasta immutata nei suoi principi, non può passare inosservato. E anche la riflessione che queste forme del pensiero hanno finito per entrare nel pensiero comune occidentale. Questa sedimentazione è diventata talmente profonda e antica da passare inosservata. Infine si è creduto che certi pensieri fossero addirittura lo specchio della realtà.
Mentre in Occidente si era consolidata tale situazione, in Giappone la filosofia rivolgeva la sua attenzione su se stessa. Miki Kiyoshi, allievo di Nishida, è l'autore di un singolare testo filosofico intitolato Kosoryoku no ronri (6) (La logica del concepimento del pensiero) che analizza lo sviluppo delle idee nel mondo storico e la loro capacità di interagire con la realtà.
Dunque la resistenza del principio di non-contraddizione ha motivi più storici che logici-filosofici. Nishida era pienamente consapevole di ciò e decise di ricorrere a una terminologia che distinguesse la logica occidentale dalla logica giapponese. Egli coniò il termine toyoteki ronri, letteralmente "logica orientale". Qui non vi sono dubbi di traduzione poiché la parola ronri significa logica, e indica appunto la logica come intesa in Occidente, ossia lo studio delle condizioni del ragionamento corretto.
Nel pensiero di Nishida ci sono state diverse tappe di evoluzione. L'ultima è costituita dall'elaborazione di una "logica del luogo" (basho no ronri), alternativa alla logica tradizionale occidentale e rielaborazione del pensiero filosofico contemporaneo. La logica del luogo (basho no ronri) comporta anche "l'identità di contraddizioni" (mujunteki doitsu). Infatti, secondo Nishida l'uno e il molteplice sono soltanto due punti di vista della stessa realtà (7).
Egli parla anche di una determinazione lineare e di una determinazione circolare, anch'esse aspetti diversi di una stessa realtà. Nishida analizza la concezione dello spazio e del tempo. Il pensiero comune concepisce il tempo come lineare, esso va dal passato al futuro. Ma se il passato è quel che è stato, e il futuro è quel che deve venire, il presente, determinato dal passato e dal futuro, non ha senso.
Il presente non può essere determinato dal passato e dal futuro in questo modo. Ciò che conosciamo è soltanto l'attimo presente. Dunque, il presente, il passato e il futuro esistono simultaneamente. Siccome la simultaneità è la caratteristica dello spazio, secondo Nishida anche il tempo è spaziale. Quindi il tempo può essere determinato in due modi, l'uno lineare, rappresentato da una linea verticale, l'altro da uno spazio orizzontale, rappresentato da un cerchio che si chiude. "L'esterno è l'interno, l'interno è l'esterno, l'uno è il molteplice, il molteplice è l'uno" è l'affermazione che Nishida ritiene essenziale. Se per Kant, il tempo è il senso interno e lo spazio il senso esterno, allora, secondo Nishida, l'interno sarà la forma dentro il tempo e l'esterno la forma dentro lo spazio.
La logica del luogo propone un'alternativa alla concezione lineare del tempo considerando il tempo in modo spaziale e circolare. In questa maniera anche le operazione logiche sono stravolte. Il modus ponens, per esempio, implica una linearità che la logica di Nishida non concede con tanta facilità. Nishida non si fermerà a una valutazione epistemica, ma estenderà queste osservazioni a considerazioni storiche e sociali. L'opposizione individuo/società sarà riportata alla relazione interno ed esterno, dunque a una identità.
Come già si può vedere, l'abbandono del principio di contraddizione prevede un rifiuto del principio d'identità. Nel sistema filosofico di Nishida è molto chiaro nell'esposizione dell'identità contraddittoria che è impensabile senza rinunciare al principio d'identità. Vedremo specificamente nel prossimo paragrafo il rifiuto da parte della filosofia giapponese del principio di identità.
Dopo Nishida altri importanti filosofi giapponesi hanno seguito questa distinzione fra logica occidentale (in cui è tenuto il principio di non-contraddizione) e logica orientale (in cui non è accettato il principio di non-contraddizione). Miki Kiyoshi (1897-1945), allievo di Nishida, elaborò una logica speculativa molto originale. Partendo dagli studi su Pascal (8), e riconoscendo dunque la distinzione fra spirito de finesse e spirito de géométrie, Miki cercò di elaborare una logica alternativa alla logica della ragione che spiegasse la forza delle idee messe in opera nella formazione del mondo storico. Kosoryoku no ronri (La logica del concepimento del pensiero) (9) è l'opera più significativa che realizza questo intento filosofico di Miki Kiyoshi.
Anche Tanabe Hajime (1885-1962) partì dalla logica nishidiana per criticare la logica occidentale. Ma la formazione iniziale di Tanabe è anche fortemente intrisa di interessi per la filosofia della scienza. Negli studi dedicati alla filosofia della scienza, come Kagaku gairon (Introduzione alla filosofia della scienza) (10), egli dimostra di destreggiarsi abilmente nell'ambito dell'epistemologia. Ma come già accaduto per gli altri filosofi giapponesi, si accorge ben presto che la logica occidentale non è conciliabile con il pensiero giapponese.
Anche per Tanabe, come per Nishida, la contraddizione si risolve in una unità indissolubile. Ma Tanabe si distacca subito dalle soluzioni proposte da Nishida, ed elabora una sua logica alternativa. L'intento di Tanabe è chiaramente quello di opporsi alla soluzione nishidiana proponendone una nuova elaborazione.
Secondo Tanabe Hajime la filosofia deve fornire una mediazione fra la logica filosofica e l'irrazionalità della realtà. Non possiamo accontentarci di restare spettatori della contraddittorietà del mondo. Questa logica sarà la "dialettica della mediazione assoluta" (zettai baikai no benshoho). La "logica della specie" (shu no ronri) sviluppata da Tanabe si sostituisce alla "logica del luogo" di Nishida.
Secondo Tanabe, Nishida sbaglierebbe quando analizza l'individuale e l'universale senza considerare che fra questi c'è la mediazione della specie (shu). Tanabe ritiene di aver corretto la logica di Nishida, ma continua a ritenersi un continuatore del filosofo di Kamakura. Tanabe attraverso la "logica della specie" perviene a una definizione storico-politica dello stato che sarebbe mediatore fra l'universale, l'individuale e la cultura. Così Tanabe crede di aver dato concretezza alla logica di Nishida che rischiava di restare troppo astratta. Ma gli eventi del conflitto mondiale colpiranno profondamente Tanabe che sottoporrà il suo sistema a una revisione. Egli ritiene di aver dato troppa importanza allo stato nazionale, dimenticando i punti di partenza.
Anche in Shu no ronri no bensho (La dialettica della logica della specie) (11) sono espressi questi ripensamenti. Nella sua autocritica, Tanabe affermerà che la sua logica era eccessivamente permeata del principio di identità, trascurando la relativizzazione di ogni prospettiva (ciò che Nishida aveva fatto in modo superbo). Perciò egli approderà con Zangedo toshite no tetsugaku (Filosofia come penitenza) (12) a una filosofia che indica i limiti della ragione rispetto all'esistenza. In quest'opera, Tanabe indica il male come una assolutizzazione della prospettiva dell'individuo. Invece, vedere e riconoscere le diversità sarebbe l'atto di libertà che permetterebbe la serena esistenza dell'essere umano.
La vicenda filosofica di Tanabe è dunque travagliata. Partita dagli studi sulla scienza termina in una riflessione esistenziale. Egli però ci lascia un sistema che ammette una logica alternativa e le implicazioni etiche e storiche che ne derivano.
Anche Takahashi Satomi (1886-1964), autore di un saggio su Edmund Husserl (13) e traduttore di Henri Bergson (14), si è occupato della logica giapponese. Takahashi riconosceva diversi sistemi dialettici e ne tentò una sintesi. I risultati sono raccolti nella sua opera dedicata a questo problema specifico: Ho benshoho (La dialettica avvolgente) (15). La dialettica di Takahashi Satomi ingloba la dialettica hegeliana, la dialettica nishidiana, ma anche la logica formale, in un tentativo audace e inusitato di sintesi. Così come espresso dal suo nome, "dialettica avvolgente" comprende tutte le dialettiche elaborate dalle filosofie occidentali e orientali.
La proposta di Watsuji Tetsuro (1889-1960) è ancora più originale (16). Egli afferma in Fudo: ningengakuteki kosatu (Il clima: analisi della natura umana) che esiste uno stretto rapporto fra la natura e il carattere umano. L'influenza dei diversi climi porterebbe alla formazione di culture diverse (17). Watsuji riconosce un clima del tifone, un clima del deserto, un clima della prateria che corrispondono alle culture estremo-orientale, medio-orientale e occidentale.
La fine sensibilità e passionalità, il senso di rassegnazione nei confronti destino, la dignità, la tenacia del giapponese sono comprensibili, secondo Watsuji, attraverso l'influenza del clima del tifone. Watsuji, comunque, non tralascia di dire che l'esistenza umana è influenzata anche fortemente dalle relazioni sociali. Il pensiero di Watsuji, scaturisce quindi in un sistema filosofico che determina l'uomo come prodotto di due forze, una naturale e l'altra sociale. In questo sistema, come in quello di Miki, le leggi del pensiero sono il prodotto di processi ambientali, storici e sociali. Quindi i principi della logica non sono considerati come assoluti e indipendenti dalla realtà.
Anche Mutai Risaku (1890-1974) ha cercato di costruire una logica per il pensiero orientale. Partito dall'intenzione di elaborare una logica per il pensiero di Nishida (18), Mutai si accorse dell'ampiezza del suo lavoro e delle implicazioni che ne derivavano. Mutai critica l'opinione che la logica occidentale rappresenti la forma più corretta del pensiero (19). Secondo Mutai Risaku, la logica occidentale è semplicemente una costruzione che è congeniale al modo di pensare degli occidentali. A questa Mutai oppone una logica dell'intuizione, ma anche Nishida aveva parlato spesso di intuizione, e così molti altri filosofi giapponesi.
In questo articolo, che è la rielaborazione di precedenti testi già pubblicati e discussi, abbiamo mostrato le posizioni di alcuni filosofi giapponesi sulla questione della forma logica. In conclusione, secondo questi autori non esiste una "logica universale", e sicuramente essa non è quella elaborata e proposta in Europa e America. Infatti la logica occidentale sarebbe soltanto una fra le tante possibili forme della logica, e ciò ha drammatiche conseguenze storiche e politiche, come è facile appurare.

Note

1. Frattolillo, Oliviero, Il Giappone e l'Occidente: dalla rivolta culturale al simposio sul superamento della modernità, L'Orientale Editrice, Napoli, 2006.
2. Fu Takano Choei a suggerire la prima traduzione della parola occidentale "filosofia" (dal greco philosophia). Era sua intenzione rendere il significato di un "sapere generale e fondamentale". Perciò coniò il termine gakushi, traducibile all'incirca come conoscenza, sapienza, insegnamento. Ma nel 1874 si preferì adottare ufficialmente la parola tetsugaku inventata dal filosofo Nishi Amane (1829-1897). Il nuovo termine era composto da due kanji: tetsu (saggezza) e gaku (scienza). Cfr. Nishi, Amane, Nishi Amane zenshu, Nippon Hyoronsha, Tokyo, 1944.
3. Le affinità e le divergenze della filosofia giapponese sono state già spiegate nel seguente articolo: Martorella, Cristiano, La Verità e il Luogo. Convergenze e divergenze fra la filosofia occidentale e giapponese, in "Diogene Filosofare Oggi", n.4, anno 2, giugno-agosto 2006, pp.14-19.
4. Nishida, Kitaro, Nishida Kitaro zenshu bekkan 1, Nikki, Iwanami Shoten, Tokyo, 1951, p. 4.
5. Sul valore della dialettica hegeliana da un punto di vista logico si legga Marsonet, Michele, Logica e linguaggio, vol.1, Pantograf, Genova, 1993, p. 59.
6. Miki, Kiyoshi, Kosoryoku no ronri, Iwanami Shoten, Tokyo, 1946 .
7. Cfr. Nishida, Kitaro, Nishida Kitaro zenshu, Iwanami Shoten, Tokyo, 1949, vol. 7, p. 204 e vol. 1, p. 86.
8. Miki, Kiyoshi, Pascal ni okeru ningen no kenkyu, Iwanami Shoten, Tokyo, 1980.
9. Miki, Kiyoshi, Kosoryoku no ronri, Iwanami Shoten, Tokyo, 1946.
10. Tanabe, Hajime, Kagaku gairon, Iwanami Shoten, Tokyo, 1918.
11. Si consulti Tanabe, Hajime, Tanabe Hajime zenshu, Chikuma Shobo, Tokyo, 1976.
12. Tanabe, Hajime, Zangedo toshite no tesugaku, Iwanami Shoten, Tokyo, 1946.
13. Takahashi, Satomi, Husserl no genshogaku, Nipponsha, Tokyo, 1931.
14. Bergson, Henri, Busshitsu to kioku, Iwanami Shoten, Tokyo, 1936.
15. Takahashi, Satomi, Ho benshoho, Risosha, Tokyo, 1947.
16. Watsuji, Tetsuro, Watsuji Tetsuro zenshu, Iwanami Shoten, Tokyo, 1992.
17. Watsuji, Tetsuro, Fudo: ningengakuteki kosatu, Iwanami Shoten, Tokyo, 1979.
18. Mutai, Risaku, Basho no ronrigaku, Kobundo, Tokyo, 1944.
19. Mutai, Risaku, Shisaku to kansatsu, Keiso Shobo, Tokyo, 1971.

domenica 8 agosto 2010

Logica del pensiero giapponese

Estratto del cap. 4 della tesi di laurea di Cristiano Martorella.

Cristiano Martorella, Il concetto giapponese di economia dal punto di vista epistemologico, Facoltà di Lettere e Filosofia, Università degli Studi di Genova, A.A. 1999-2000.

Capitolo 4. La forma logica del pensiero giapponese

4.1 La diversità concettuale come problema epistemologico
4.2 Sayonara al principio di non-contraddizione
4.3 Il frutto proibito del principio d’identità
4.4 La rigidità del principio di non-contraddizione
4.5 La forma giapponese della verità
4.6 Uso della negazione nella lingua giapponese
4.7 Il principio dell’ombra


Capitolo 4. La forma logica del pensiero giapponese


4.1 La diversità concettuale come problema epistemologico

A questo punto della nostra indagine, ci imbattiamo in un quesito che riguarda direttamente l'epistemologia e che non possiamo rimandare oltre. Il nostro è un approccio radicale che si basa sull'individuazione di precisi modelli di pensiero. L'apporto della filosofia è fondamentale, anche se qualche volta non appare nelle nostre analisi, ed è quindi importantissimo essere chiari sull'impostazione dei problemi che stiamo affrontando. La filosofia della scienza ha elaborato la nozione di schema concettuale come strumento dello sviluppo culturale fondato sui concetti che permettono di giudicare la realtà.
Il contributo maggiore allo studio e alla critica della definizione di schema concettuale è stato fornito da Donald Davidson, autore che quindi dovremo prendere in massima considerazione (1). Secondo Davidson, uno schema concettuale completamente alternativo sarebbe inintelligibile. Come sarebbe possibile capire ciò che è concettualmente diverso, dice Davidson, se gli strumenti della conoscenza sono totalmente diversi? Anche se uno schema concettuale alternativo esistesse, esso sarebbe intraducibile in un altro schema concettuale. Effettivamente molte espressioni giapponesi risultano intraducibili, e quasi soddisfano i criteri di inintelligibilità richiesti da Davidson.
Ma non è nostro scopo dimostrare l'incomprensibilità dello schema concettuale giapponese, anzi è il contrario, si tenta di spiegarlo. E nemmeno è nostro intento confutare Davidson perché ha sollevato un'obiezione. Infatti Davidson conclude il capitolo "Sull'idea stessa di schema concettuale" contenuto in Verità e interpretazione, assumendo una posizione abbastanza equilibrata:

"[...] Infatti non abbiamo trovato una base intelligibile su cui poter affermare che due schemi sono diversi. Altrettanto errato sarebbe annunciare la buona notizia per cui l'umanità intera - o almeno tutti quelli che possiedono un linguaggio - ha in comune uno schema concettuale e un'ontologia. Infatti, se non possiamo dire intelligibilmente che due schemi sono diversi , non possiamo dire intelligibilmente che sono una sola cosa. [...] Dal dogma del dualismo tra schema e realtà, segue la relatività concettuale e la verità relativa a quello schema. Senza quel dogma, questo genere di relatività scompare dal campo." [D. Davidson, Verità e interpretazione, Il Mulino, Bologna, 1994, p. 282]

Le obiezioni sollevate da Donald Davidson sono interessanti, ma possono trovare risposta solo in uno schema concettuale diverso. Paradossalmente Davidson ci dice che si deve rinunciare alla distinzione fra schema e contenuto, ma nel fare ciò non stiamo definendo un diverso paradigma? Evidentemente per Davidson non esiste uno schema concettuale, o almeno la sua definizione non corrisponde a quella consueta. Vedremo come affrontare tale questione ardua ma stimolante alla fine dell'intero lavoro. Solo possedendo un'idea chiara del sistema di pensiero giapponese potremo fare dei confronti. Per il momento tentiamo di definire la diversità concettuale giapponese seguendo ciò che ci dicono i filosofi e gli studiosi giapponesi. Alla fine trarremo le dovute conclusioni. Per il momento però è utile definire come sia possibile la comunicazione fra schemi concettuali diversi superando i problemi di inintelligibilità.
Già Ludwig Wittgenstein aveva dimostrato implicitamente che poteva esistere comunicazione fra schemi concettuali diversi quando propose l'esempio del coleottero in una scatola (Cfr. Ricerche filosofiche, Par. 293). La comunicazione può avvenire anche se il concetto di coleottero è diverso, se le nostre esperienze differiscono, perfino se la nostra scatola è vuota. "Usare una parola senza giustificazione non vuol dire usarla senza averne il diritto", ci dice chiaramente Wittgenstein (Ibidem, Par. 289). La condivisione di pochi elementi linguistici permette comunque la continuazione della conversazione, indipendentemente dai giudizi, dalle credenze e quindi dagli schemi concettuali. Wittgenstein, infatti, riconosce la comprensione (condivisione dei giudizi e delle credenze) come un passo ulteriore della comunicazione (Ibidem, Par. 242). La comunicazione non è affatto l'approdo finale del linguaggio, è soltanto il cominciamento.
Riguardo ai problemi di traduzione della lingua giapponese, molti autori giapponesi ne hanno scritto a bizzeffe. Il problema, come sempre, è che la maggior parte di questi testi non sono stati tradotti in lingue occidentali e sono rimasti sconosciuti sia in Europa che in America. Qui citiamo il bel libro, semplice ed essenziale, di Morimoto Tetsuro intitolato Nihongo omote to ura (La lingua giapponese, davanti e dietro) (2). Il titolo è già significativo, intendendo che esiste una facciata, gli aspetti superficiali della lingua, ma anche un dietro, gli aspetti profondi e nascosti che sono difficili da percepire. A dispetto di tali supposte difficoltà, Moritomo fornisce un quadro molto semplice e naturale che spiega la lingua in connubio con la sensibilità giapponese restando nell'ambito della vita quotidiana.
Secondo i giapponesi, le difficoltà della lingua giapponese sono da imputare a un modo di percepire la realtà totalmente diverso. Ma come abbiamo prima detto, questa diversità dipende dai fondamenti (in giapponese kiso) del pensiero e delle sue leggi logiche. Se le differenze di significato e di credenze che riscontriamo nel pensiero giapponese sono solo la parte che emerge di un immenso iceberg, differenze che nascono dai fondamenti e dall'elaborazione del pensiero, ossia dalle strutture e leggi logiche, preoccuparsi solo dell'aspetto interpretativo dei significati e delle credenze senza capire da dove scaturiscano è abbastanza limitativo.
Per questo motivo abbiamo scelto di rispolverare la teoria weberiana che non è stata mai usata in ambito epistemologico con la portata e le conclusioni che noi stiamo ottenendo(3). Franco Ferrarotti ha sostenuto che Max Weber sia stato tremendamente sottovalutato(4). Anche noi siamo di questo avviso e intendiamo dimostrarlo utilizzando il metodo weberiano in maniera nuova e pratica.
Il "comprendere" (verstehen) è per Max Weber un processo che utilizza gli schemi concettuali diversi grazie al principio dell'avalutività. Al contrario l'interpretazione sembra un procedimento di accomodamento fra il nostro schema concettuale ed l'espressione verbale. Noi abbiamo detto fin dall'inizio che avremmo rinunciato al nostro schema concettuale per cercare di afferrare la razionalità giapponese, seguendo l'esempio del metodo tracciato da Weber. In tal modo da tentare di "comprendere" piuttosto che "interpretare".
L'unica maniera per impossessarsi di uno schema concettuale è usarlo. Tentare di limitare i problemi di traduzione ricorrendo a qualche facile scappatoia ci farebbe cadere in errore. A questo proposito hanno ragione i giapponesi nel criticare gli occidentali per la loro superficialità quando si accostano alla cultura e società giapponese.
Il rimprovero alla superficialità e presunzione dell'occidentale proviene dalla constatazione di un atteggiamento che ignora l'esistenza di un sentire e pensare diverso. O peggio, lo etichetta come una "diversità inferiore" che è destinata a sparire travolta dal progresso occidentale.
Per restare nell'ambito della filosofia, anche Ludwig Wittgenstein si era accorto che il pericolo era confondere la prassi con l'interpretazione (5). Quando parliamo con un interlocutore, ci aspettiamo che abbia un comportamento consono alle nostre aspettative, non certo che si impegni a interpretare le nostre parole secondo il suo schema concettuale. Così come quando ordiniamo una pietanza al cameriere ci aspettiamo di essere serviti e non attendiamo un discorso di apprezzamento sui nostri gusti raffinati. Questa è la differenza fra prassi e interpretazione che fu esposta più volte da Wittgenstein e ripresa e rielaborata da Austin (6).
Per questo rifiutiamo l'idea di "interpretare" attraverso il nostro schema concettuale, anche perché ci sembra inconciliabile con la filosofia del linguaggio ordinario di Wittgenstein, Austin e Grice. Se la parola è anche azione, usare parole diverse spesso, ma non sempre, significa eseguire azioni diverse. Numerose volte abbiamo citato direttamente in giapponese molti termini con l'intento di mostrare la diversità d'uso della parola. È Wittgenstein che ci insegna che il significato è l'uso di una parola. Se avessimo usato direttamente una nostra o altre traduzioni, avremmo forse fornito un'idea falsa su quei termini.
Il problema dell'inintelligibilità degli schemi concettuali è ripreso anche da Richard Rorty nel saggio Il mondo finalmente perduto(7). Il suggestivo titolo intende con "mondo perduto" quello del realista ingenuo. In questo saggio, egli analizza la posizione di Davidson e Stroud nei confronti dello "schema concettuale alternativo". Partendo da Hegel e Kant fino a giungere a Heidegger e Dewey, tracciando una particolare storia della filosofia nello stile tipico di Rorty, si descrivono le possibilità che provengono dall'accettazione dell'esistenza di uno schema concettuale alternativo.
Rorty è concorde con Davidson circa l'inintelligibilità dello schema concettuale alternativo e utilizza una serie di esempi. Fra le tante situazioni bizzarre proposte da Rorty, una sembra molto simile al nostro caso, ed è quello degli abitanti del pianeta Mongo. Essi avrebbero uno schema concettuale alternativo che includerebbe una diversa nozione di morale, di arte, di scienza, etc. Se nell'esempio di Rorty sostituissimo "pianeta Mongo" con "società giapponese", ci troveremmo in una situazione non dissimile. Il fatto che Rorty ricorra a esempi immaginari tratti dalla fantascienza e non citi casi concreti disponibili e documentati, sembra indicativo della necessità di non confondere il piano teorico con esempi concreti che necessitano di studi approfonditi.
Infatti la conclusione di Rorty non è l'affermazione di uno schema concettuale unico, ipotesi prontamente respinta anche da Davidson, ma l'auspicio di un superamento di idealismo e realismo.

"Ma se potremo giungere a considerare sia la teoria della coerenza sia quella della corrispondenza delle banalità non antagonistiche, allora potremo andare finalmente oltre il realismo e l'idealismo. Potremo raggiungere un punto in cui, per dirla con Wittgenstein, saremo in grado di cessare di fare filosofia come e quando vogliamo." (8)

Anche qui Rorty sembra indicare una soluzione simile a quella di Davidson: la necessità di un paradigma filosofico diverso. Sembra chiaro che questi autori ci stiano indicando che i problemi circa lo schema concettuale dipenderebbero da cattive definizioni filosofiche, ciò che Wittgenstein indicava come pseudo-problemi. Queste difficoltà dovrebbero essere risolvibili in un diverso sistema filosofico.
Per quanto riguarda il presente lavoro, noi abbiamo deciso dall'inizio di seguire il pensiero giapponese fino in fondo, e anche nei confronti di tali questioni scegliamo di studiare la soluzione giapponese. Soltanto conoscendo la posizione filosofica giapponese potremo affermare se essa si inserisce in un quadro già esistente nella tradizione occidentale, se ha rapporti con le posizioni dell'epistemologia contemporanea e quanto sia diversa e proponga di nuovo.
Però una riflessione non può certo mancare. La filosofia giapponese (9), con il suo magnificente sviluppo di dodici secoli, da Kobo Daishi a Nishida Kitaro, non ha nulla da invidiare alla filosofia americana, con i suoi vivaci due secoli da Ralph Waldo Emerson a John Dewey. Forse è ridicolo continuare a sostenere che lo sviluppo della filosofia giapponese sia viziato da dei limiti intellettuali. Anche perché sono veramente pochi gli studiosi occidentali che si sono occupati della filosofia contemporanea giapponese. Quindi è insensato dare un giudizio su ciò che non si conosce.
Più interessante è invece, guardando dal punto di vista giapponese, scoprire i contorcimenti che affliggono il pensiero occidentale. Continuamente ascoltiamo discorsi vari sulla globalizzazione del pianeta. Per una volta facciamo in modo che questa globalizzazione e integrazione avvenga anche con la filosofia. Se questo mondo non deve avere più confini, questi devono però essere abbattuti anche nelle nostre menti. In questo caso ha forse ragione Hashizume quando vede in Ludwig Wittgenstein una ribellione nei confronti del pensiero occidentale (10). Non è del tutto avventato riconoscere nell'ultimo sviluppo del pensiero di Wittgenstein un abbandono della logica vero-funzionale in favore del gioco linguistico, delle somiglianze di famiglia e del seguire una regola (11).
Se dovessimo fornire una nostra visione dello sviluppo della filosofia giapponese, ci sembra di poter dire che i filosofi giapponesi siano partiti da quelle che sono state le mete conclusive della filosofia occidentale: rifiuto del principio di non-contraddizione (Hegel) e abbandono della logica vero-funzionale (Wittgenstein).
Ci rendiamo conto che affermare che il pensiero giapponese obbedisce ad altre leggi logiche è talmente dirompente da costituire una rivoluzione copernicana dell'odierno concetto di razionalità. Fino a oggi è stata un'idea comune che le leggi della logica fossero universali, e anche se la filosofia ha ampiamente dimostrato l'esistenza di logiche "altre", non si è considerato con troppo credito la possibilità che esseri umani utilizzassero logiche differenti (12).
Nessuno si è preoccupato di verificare le leggi logiche del pensiero umano tranne gli etnologi. Ma il fatto che il lavoro degli etnologi fosse condotto su popoli primitivi, ha fatto etichettare quel tipo di pensiero come pre-logico, ossia in una fase antecedente e dunque non ancora sviluppato. In questa maniera l'epistemologia ha volutamente ignorato dei risultati scientifici screditandoli (13).
Il caso giapponese è però differente. Nonostante si tenti di spiegare ancora il pensiero giapponese come il residuo di una mentalità tradizionale, ipotesi che ormai non regge più davanti all'evidenza, si sta dimostrando l'infondatezza di tutte le teorie che si limitano a definire la differenza come culturale. Noi affermiamo che esiste una razionalità giapponese con sue precise leggi e intendiamo anche individuarle.
Il problema della razionalità giapponese ha degli epigoni che non possono essere trascurati. Le alternative contemplate sono due. O quello che stiamo affermando è completamente infondato, e dunque stiamo raccontando la più grande frottola che sia mai stata sostenuta in un ambito scientifico (usando un'espressione in inglese: "the pie in the sky"). In tal caso andrebbe a nostro merito l'incredibile fantasia adoperata, e sarebbe quindi da cogliere l'opportunità al volo cambiando immediatamente professione, passando dalla filosofia alla novellistica.
Oppure abbiamo trovato un nodo cruciale che rimette in discussione il concetto ormai consolidato di razionalità. Capire quale delle due alternative sia quella corretta, è importantissimo da un punto di vista scientifico. Se ciò che stiamo sostenendo è sbagliato, significa che è più plausibile una forma logica del pensiero unica e universale. E questa sarebbe una conquista scientifica ragguardevole. Altrimenti dobbiamo constatare, dando ragione alla nostra tesi, che esiste una pluralità di logiche alla base dell'agire umano.

4.2 Sayonara al principio di non-contraddizione

Essendo il principio di non-contraddizione uno dei punti fondamentali della logica del pensiero occidentale, è naturale che sia anche uno dei più contestati. La critica più autorevole al principio di non-contraddizione nella filosofia contemporanea giapponese è stata esposta da Nishida Kitaro (1870-1945).
Il pensiero di Nishida non è un tentativo di elaborazione isolata della filosofia giapponese, ma al contrario, deve molto alla filosofia idealista tedesca, in particolare Hegel, Fichte, Schelling, Schleiermacher ma anche a Kant, Hume, Locke, Spinoza, Leibniz, Schopenhauer, Lotze e Hartmann (abbiamo documentazione certa nei diari e nella corrispondenza che ci testimoniano i suoi interessi) (14).
Si sa quanto Nishida fosse impegnato nello studio dei testi filosofici europei, tanto da essere diventata leggendaria la sua figura di studioso che trascorreva le notti immerso nella lettura. Non c'è quindi motivo di sorpresa se si trova in Nishida una ripresa di Hegel in opposizione al principio di non-contraddizione (15).
Per Nishida la contraddizione fa parte della dialettica della realtà. Essendo la contraddizione costitutiva dell'essere, non la si può considerare come un qualcosa a parte. La contraddizione non va esclusa dalla realtà, così come interpreta il senso comune, poiché è posta proprio al suo interno. Perciò Nishida prova un autentico senso di rifiuto nei confronti della contraddizione come presentata dalla tradizione occidentale. E come ha anche mostrato Löwith, abbiamo dovuto attendere Hegel e Nietzsche perché avvenisse un cambiamento profondo nel pensiero filosofico in Occidente.
Il fatto storico che per millenni la filosofia europea sia rimasta immutata nei suoi principi, non può passare inosservato. E anche la riflessione che queste forme del pensiero hanno finito per entrare nel pensiero comune occidentale. Questa sedimentazione è diventata talmente profonda e antica da passare inosservata. Infine si è creduto che certi pensieri fossero addirittura lo specchio della realtà.
Mentre in Occidente si era consolidata tale situazione, in Giappone la filosofia rivolgeva la sua attenzione su se stessa. Miki Kiyoshi, allievo di Nishida, è l'autore di un singolare testo filosofico intitolato Kosoryoku no ronri (16) (La logica del concepimento del pensiero) che analizza lo sviluppo delle idee nel mondo storico e la loro capacità di interagire con la realtà.
Dunque la resistenza del principio di non-contraddizione ha motivi più storici che logici-filosofici. Nishida era pienamente consapevole di ciò e decise di ricorrere a una terminologia che distinguesse la logica occidentale dalla logica giapponese. Egli coniò il termine toyoteki ronri, letteralmente "logica orientale". Qui non vi sono dubbi di traduzione poiché la parola ronri significa logica, e indica appunto la logica come intesa in Occidente, ossia lo studio delle condizioni del ragionamento corretto.
Nel pensiero di Nishida ci sono state diverse tappe di evoluzione. L'ultima è costituita dall'elaborazione di una "logica del luogo" (basho no ronri), alternativa alla logica tradizionale occidentale e rielaborazione del pensiero filosofico contemporaneo. La logica del luogo (basho no ronri) comporta anche "l'identità di contraddizioni" (mujunteki doitsu). Infatti, secondo Nishida l'uno e il molteplice sono soltanto due punti di vista della stessa realtà (17).
Egli parla anche di una determinazione lineare e di una determinazione circolare, anch'esse aspetti diversi di una stessa realtà. Nishida analizza la concezione dello spazio e del tempo. Il pensiero comune concepisce il tempo come lineare, esso va dal passato al futuro. Ma se il passato è quel che è stato, e il futuro è quel che deve venire, il presente, determinato dal passato e dal futuro, non ha senso.
Il presente non può essere determinato dal passato e dal futuro in questo modo. Ciò che conosciamo è soltanto l'attimo presente. Dunque, il presente, il passato e il futuro esistono simultaneamente. Siccome la simultaneità è la caratteristica dello spazio, secondo Nishida anche il tempo è spaziale. Quindi il tempo può essere determinato in due modi, l'uno lineare, rappresentato da una linea verticale, l'altro da uno spazio orizzontale, rappresentato da un cerchio che si chiude. "L'esterno è l'interno, l'interno è l'esterno, l'uno è il molteplice, il molteplice è l'uno" è l'affermazione che Nishida ritiene essenziale. Se per Kant, il tempo è il senso interno e lo spazio il senso esterno, allora, secondo Nishida, l'interno sarà la forma dentro il tempo e l'esterno la forma dentro lo spazio.
La logica del luogo propone un'alternativa alla concezione lineare del tempo considerando il tempo in modo spaziale e circolare. In questa maniera anche le operazione logiche sono stravolte. Il modus ponens, per esempio, implica una linearità che la logica di Nishida non concede con tanta facilità. Nishida non si fermerà a una valutazione epistemica, ma estenderà queste osservazioni a considerazioni storiche e sociali. L'opposizione individuo/società sarà riportata alla relazione interno ed esterno, dunque a una identità.
Come già si può vedere, l'abbandono del principio di contraddizione prevede un rifiuto del principio d'identità. Nel sistema filosofico di Nishida è molto chiaro nell'esposizione dell'identità contraddittoria che è impensabile senza rinunciare al principio d'identità. Vedremo specificamente nel prossimo paragrafo il rifiuto da parte della filosofia giapponese del principio di identità.
Dopo Nishida altri importanti filosofi giapponesi hanno seguito questa distinzione fra logica occidentale (in cui è tenuto il principio di non-contraddizione) e logica orientale (in cui non è accettato il principio di non-contraddizione). Miki Kiyoshi (1897-1945), allievo di Nishida, elaborò una logica speculativa molto originale. Partendo dagli studi su Pascal (18), e riconoscendo dunque la distinzione fra spirito de finesse e spirito de géométrie, Miki cercò di elaborare una logica alternativa alla logica della ragione che spiegasse la forza delle idee messe in opera nella formazione del mondo storico. Kosoryoku no ronri (La logica del concepimento del pensiero) (19) è l'opera più significativa che realizza questo intento filosofico di Miki.
Anche Tanabe Hajime (1885-1962) partì dalla logica nishidiana per criticare la logica occidentale. Ma la formazione iniziale di Tanabe è anche fortemente intrisa di interessi per la filosofia della scienza. Negli studi dedicati alla filosofia della scienza, come Kagaku gairon (Introduzione alla filosofia della scienza) (20), egli dimostra di destreggiarsi abilmente nell'ambito dell'epistemologia. Ma come già accaduto per gli altri filosofi giapponesi, si accorge ben presto che la logica occidentale non è conciliabile con il pensiero giapponese.
Anche per Tanabe, come per Nishida, la contraddizione si risolve in una unità indissolubile. Ma Tanabe si distacca subito dalle soluzioni proposte da Nishida, ed elabora una sua logica alternativa. L'intento di Tanabe è chiaramente quello di opporsi alla soluzione nishidiana proponendone una nuova elaborazione.
Secondo Tanabe Hajime la filosofia deve fornire una mediazione fra la logica filosofica e l'irrazionalità della realtà. Non possiamo accontentarci di restare spettatori della contraddittorietà del mondo. Questa logica sarà la "dialettica della mediazione assoluta" (zettai baikai no benshoho). La "logica della specie" (shu no ronri) sviluppata da Tanabe si sostituisce alla "logica del luogo" di Nishida.
Secondo Tanabe, Nishida sbaglierebbe quando analizza l'individuale e l'universale senza considerare che fra questi c'è la mediazione della specie (shu). Tanabe ritiene di aver corretto la logica di Nishida, ma continua a ritenersi un continuatore del filosofo di Kamakura. Tanabe attraverso la "logica della specie" perviene a una definizione storico-politica dello stato che sarebbe mediatore fra l'universale, l'individuale e la cultura.
Così Tanabe crede di aver dato concretezza alla logica di Nishida che rischiava di restare troppo astratta. Ma gli eventi del conflitto mondiale colpiranno profondamente Tanabe che sottoporrà il suo sistema a una revisione. Egli ritiene di aver dato troppa importanza allo stato nazionale, dimenticando i punti di partenza.
Anche in Shu no ronri no bensho (La dialettica della logica della specie) (21) sono espressi questi ripensamenti. Nella sua autocritica, Tanabe affermerà che la sua logica era eccessivamente permeata del principio di identità, trascurando la relativizzazione di ogni prospettiva (ciò che Nishida aveva fatto in modo superbo).
Perciò egli approderà con Zangedo toshite no tetsugaku (Filosofia come penitenza) (22) a una filosofia che indica i limiti della ragione rispetto all'esistenza. In quest'opera, Tanabe indica il male come una assolutizzazione della prospettiva dell'individuo. Invece, vedere e riconoscere le diversità sarebbe l'atto di libertà che permetterebbe la serena esistenza dell'essere umano.
La vicenda filosofica di Tanabe è dunque travagliata. Partita dagli studi sulla scienza termina in una riflessione esistenziale. Egli però ci lascia un sistema che ammette una logica alternativa e le implicazioni etiche e storiche che ne derivano.
Anche Takahashi Satomi (1886-1964), autore di un saggio su Edmund Husserl(23) e traduttore di Henri Bergson(24), si è occupato della logica giapponese. Takahashi riconosceva diversi sistemi dialettici e ne tentò una sintesi. I risultati sono raccolti nella sua opera dedicata a questo problema specifico: Ho benshoho (La dialettica avvolgente)(25). La dialettica di Takahashi Satomi ingloba la dialettica hegeliana, la dialettica nishidiana, ma anche la logica formale, in un tentativo audace e inusitato di sintesi. Così come espresso dal suo nome, "dialettica avvolgente" comprende tutte le dialettiche elaborate dalle filosofie occidentali e orientali.
La proposta di Watsuji Tetsuro (1889-1960) è ancora più originale(26). Egli afferma in Fudo: ningengakuteki kosatu (Il clima: analisi della natura umana) che esiste uno stretto rapporto fra la natura e il carattere umano. L'influenza dei diversi climi porterebbe alla formazione di culture diverse (27). Watsuji riconosce un clima del tifone, un clima del deserto, un clima della prateria che corrispondono alle culture estremo-orientale, medio-orientale e occidentale.
La fine sensibilità e passionalità, il senso di rassegnazione nei confronti destino, la dignità, la tenacia del giapponese sono comprensibili, secondo Watsuji, attraverso l'influenza del clima del tifone. Watsuji, comunque, non tralascia di dire che l'esistenza umana è influenzata anche fortemente dalle relazioni sociali. Il pensiero di Watsuji, scaturisce quindi in un sistema filosofico che determina l'uomo come prodotto di due forze, una naturale e l'altra sociale. In questo sistema, come in quello di Miki, le leggi del pensiero sono il prodotto di processi ambientali, storici e sociali. Quindi i principi della logica non sono considerati come assoluti e indipendenti dalla realtà.
Anche Mutai Risaku (1890-1974) ha cercato di costruire una logica per il pensiero orientale. Partito dall'intenzione di elaborare una logica per il pensiero di Nishida (28), Mutai si accorse dell'ampiezza del suo lavoro e delle implicazioni che ne derivavano. Mutai critica l'opinione che la logica occidentale rappresenti la forma più corretta del pensiero (29). Secondo Mutai, la logica occidentale è semplicemente una costruzione che è congeniale al modo di pensare degli occidentali. A questa Mutai oppone una logica dell'intuizione. In un altro paragrafo vedremo nei particolari cosa si intende per logica dell'intuizione. Anche Nishida aveva parlato spesso di intuizione, e così anche gli altri filosofi giapponesi.
Cercheremo di fornire una spiegazione di ciò in termini più formali e meno legati al discorso della filosofia giapponese, così da evitare al lettore uno studio approfondito della secolare tradizione filosofica giapponese.
In questo capitolo abbiamo mostrato le posizioni di alcuni filosofi giapponesi sulla questione della forma logica. Secondo questi autori non esiste una "logica universale". E sicuramente essa non è quella elaborata e proposta in Europa e America. La logica occidentale è soltanto una fra le tante possibili forme della logica.

4.3 Il frutto proibito del principio di identità

Per usare un'immagine biblica, la filosofia occidentale ha mangiato il frutto proibito del principio di identità. Ma la filosofia orientale non è occorsa in questo incidente. Per essere precisi, l'accettazione del principio di identità che afferma che ogni cosa è uguale a se stessa, non è stato accettato con tanta ovvietà nemmeno in Occidente, finché non è stato, per l'appunto, morso il frutto proibito. E con ciò, l'uomo cacciato dall'Eden ha creduto di aver acquisito la conoscenza.
Prima di questo incidente, la condizione della filosofia era differente. Eraclito sosteneva che non si potesse nuotare due volte nello stesso fiume e anche le posizioni di molti sofisti, quali Gorgia, Protagora, Zenone, si rifacevano a un relativismo che sembra non ammettere il principio d'identità. Con Socrate, Platone e Aristotele, un terzetto senza dubbio invidiabile, la musica cambiò radicalmente. Socrate insisteva sulla precisione delle definizioni e ricorreva a stringenti confutazioni che non permettevano di evadere il principio di identità.
Platone collegò gli enti materiali alle idee, fissando stabilmente la loro identità. Aristotele costruì una logica che fissava il principio di identità e altre regole che non potevano farne a meno.
Ma l'inizio del XX secolo ha visto rimettere in discussione il principio di identità da Ludwig Wittgenstein. Il fatto che si è dovuto aspettare un paio di millenni prima di criticare il principio di identità è abbastanza sconcertante. Ma si può comprendere la situazione se si apprezzano le capacità intellettuali del terzetto terribile composto da Socrate, Platone e Aristotele. Pensare liberamente senza l'influsso del prodigioso terzetto è stato abbastanza difficile per gli occidentali. E lo è tuttora.
Wittgenstein si è posto in una condizione molto semplice: prima di mordere il frutto proibito, dovremmo sapere che cosa stiamo per mangiare. Cos'è realmente il principio di identità? Wittgenstein afferma che è qualcosa di superfluo.

"Che l'identità non sia una relazione fra oggetti è evidente. [...] La definizione, data da Russell di " = " non basta; infatti, secondo essa, non si può dire che due oggetti abbiano in comune tutte le proprietà. [...] Detto approssimativamente: dire di due cose, che esse siano identiche, è un nonsenso; e dire di una cosa che essa sia identica a se stessa, non dice nulla. [...] Il segno d'equivalenza non è dunque parte costitutiva essenziale dell'ideografia." (30)

Con il Tractatus, Wittgenstein ricacciava fuori dalla logica formale il principio di identità. Ovviamente i logici occidentali si sono affrettati nel cercare di dimostrare che Wittgeinstein stesse soltanto scherzando. Quindi si è pervenuti a diverse neutralizzazioni, ma non tutte con la stessa portata e uguali risvolti. Le posizioni sono molto differenziate e corrispondono all'odierno panorama filosofico.
La situazione storica che vede una molteplicità di correnti è dovuta appunto a non aver saputo fornire una risposta unitaria ai problemi logici sollevati all'inizio del XX secolo. Certamente il principio di identità richiede anche una capacità di astrazione che rende assoluto, e quindi separato dalla realtà, un aspetto del mondo fenomenico. Ma è difficile sostenere che esisti una realtà immutabile e che qualcosa resti assolutamente immodificabile. Perciò, nel tentativo di costruire con il Tractatus una logica che fosse immagine del mondo, Wittgenstein conclude che il principio di identità non ha ragione d'essere. Inoltre, questi problemi filosofici hanno delle ripercussioni religiose non indifferenti.
Gli occidentali hanno sempre avuto un pessimo rapporto con l'idea della morte. Il fatto che non accettino con facilità la propria natura transitoria è indice di una concezione dell'esistenza immutabile. L'insistenza sull'attesa di una vita ultraterrena perfetta è stata dunque la ripercussione di tale concezione.
Le religioni orientali ricorrono invece all'immagine della reincarnazione (in giapponese tensei) per indicare il continuo mutamento dell'esistenza. Per un occidentale è ancora difficile rinunciare alla sua identità e ammettere la vanità della propria personalità.
Queste osservazioni ci mostrano l'efficacia del metodo di Weber. Le credenze non sono soltanto un apparato accessorio, ma la manifestazione dei meccanismi di forme diverse di pensiero. Se riusciamo a ricondurre gli atteggiamenti e l'agire sociale a un modello di pensiero abbiamo afferrato ("compreso" direbbe Weber) la razionalità di quel sistema sociale.

Come indicato dai filosofi giapponesi, scegliere un principio logico come quello dell'identità non è solo un problema formale, le implicazioni sono storiche e sociali. Perciò in Giappone si è teorizzato con la filosofia contemporanea un diverso sistema logico. Da questa elaborazione dipendeva l'esistenza stessa del sistema culturale e sociale giapponese.
Difendere la specificità del pensiero giapponese è stato il più grande risultato raggiunto dalla filosofia giapponese nel XX secolo.
Quando si può affermare la propria indipendenza intellettuale, tutti gli attacchi alla propria identità culturale sono vani.

4.4 La rigidità del principio di non-contraddizione

Blaise Pascal è un pensatore a torto trascurato, essendogli riservato spesso uno spazio limitato nei manuali di filosofia. In Giappone, invece, è stato al centro di importanti studi da parte di Miki Kiyoshi che lo riteneva un autore fondamentale (31).
Questa osservazione preliminare è necessaria per far comprendere l'esistenza di un filone di studi sulla filosofia occidentale che sono completamente ignorati in Europa e in America. Esiste una storia della filosofia ancora sconosciuta che attende soltanto di essere portata alla luce.
Forse abbiamo dato per scontato ciò che non lo è. Non si può dire che la storia della filosofia sia completa finché non sarà integrata dall'opera degli studiosi giapponesi.
Come abbiamo detto in precedenza, Pascal è un filosofo trascurato, e molto spesso si dimentica quanto fosse radicato in lui lo spirito del matematico e del logico. Così molte delle sue affermazioni vengono lette solo dal punto di vista religioso.
In questo modo è sfuggita alla maggior parte degli interpreti una affermazione di Pascal che non riguardava esclusivamente la morale, ma era un'autentica critica del principio di non-contraddizione.

"Contraddizione è un cattivo marchio di verità. Molte cose certe sono contraddette. Molte false passano senza contraddizione. Né la contraddizione è marchio di falsità né la non contraddizione è marchio di verità." (32)

Un altro pensiero riguarda ancora la falsità:

"Immaginazione. È la parte dominante dell'uomo, questa maestra d'errore e di falsità, e tanto più traditrice che non sempre lo è, poiché sarebbe regola infallibile di verità, se lo fosse infallibile di menzogna." (33)

Il secondo di questi pensieri è la soluzione tout court del paradosso del mentitore che ha ossessionato generazioni di logici fino a giungere alle forme più sofisticate proposte da Bertrand Russell (34).
Pascal afferma con forza che la contraddizione non permette di determinare la verità. Non si può affermare che una proposizione sia falsa perché contraddittoria, e viceversa vera perché non contraddittoria. Sembra anche che Pascal non accetti l'uso dell'operatore logico della negazione come ci è insegnato dalla tradizione.
Dunque la negazione di una verità non sarebbe sempre una falsità e viceversa. Se sembra strano che la negazione di una proposizione non fornisca il valore di verità inverso, è il caso di riflettere un po' con qualche esempio.
Esiste un buffo modo di presentare un caso di ambiguità dicendo che "un bicchiere è mezzo vuoto" o "un bicchiere è mezzo pieno". Apparentemente i due enunciati esprimono concetti opposti, ma in realtà descrivono l'identico fenomeno fisico. Usando questo esempio possiamo costruire due proposizioni: "Il bicchiere non è mezzo vuoto, è mezzo pieno" e "Il bicchiere non è mezzo pieno, è mezzo vuoto".
Si tratta di un'ambiguità che non permette un giudizio univoco. Si potrebbe dire che sono entrambe vere? Ma c'è da notare che la seconda è la negazione perfetta della prima. In questo caso non sempre la negazione di un proposizione fornisce un valore di verità inverso. E non si può dire che esistano sempre situazioni in cui determinare il valore di verità sia ovvio.
La vita concreta offre più spesso situazioni intermedie e quasi mai degli estremi. Affrontare la realtà vedendo le cose in due soli modi, bianco o nero, è alquanto pericoloso e irrealistico. La logica usa un criterio binario della verità, ma gli esseri umani sono costretti a usare strutture logiche ben meno rigide.
Il secondo esempio è il più eloquente ed è quello del paradosso del mentitore: "Io sono un mentitore". Questa affermazione è vera o falsa? Se usiamo una struttura rigida della verità cadiamo nel paradosso. Ma se ascoltiamo il suggerimento di Pascal, considerando che non sempre la menzogna è menzognera altrimenti sarebbe regola infallibile di verità, il paradosso svanisce.
E così appare la realtà concreta: siamo davanti alla confessione di un bugiardo oppure allo scherzo di un onesto. Come ci indica anche John McDowell (35), la soluzione si trova nel contesto e non nella frase. Non c'è alcun paradosso se si scelgono bene i criteri di giudizio.
Oggi possiamo formalizzare queste osservazioni di Pascal, cosa che non era possibile ai suoi tempi. Se allora consideriamo senza indugio queste indicazioni, non accettando l'operatore di negazione come funzione inversa, ne ricaviamo quattro tavole di verità che corrispondono ai vari mondi possibili (36).

p ~ p
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V F V
F V F


p ~ p
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V V V

F F F



p ~ p
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V V V

F V F


p ~ p
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V F V
F F F

Utilizzando queste tabelle per l'operatore di negazione insieme al connettivo della congiunzione si ricava:

p ^ ~ p
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V F F V

F F V F


p ^ ~ p
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V V V V

F F F F


p ^ ~ p
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V V V V
F F V F


p ^ ~ p
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V F F V
F F F F


La prima tabella corrisponde al principio di non-contraddizione classico, le altre tre alle conseguenze della logica pascaliana. Come ci dice Pascal, la contraddizione non sarebbe "marchio di falsità" (marque de fausseté) e la non-contraddizione "marchio di verità" (marque de vérité). Seguendo le tavole derivate dall'osservazione di Pascal si ricava che con il connettivo della congiunzione una verità può anche essere contraddetta, mentre la falsità è sempre contraddetta. Dinanzi alla contraddizione non sappiamo se ci troviamo in presenza di una verità o di una falsità, anche se le probabilità che sia una falsità sono più alte. Che Pascal volesse suggerire una visione probabilistica della verità non è una supposizione infondata se si considera l'argomento della scommessa e tutti i suoi studi inerenti. In conclusione la verità non può essere dedotta tramite la contraddizione che può parlarci solo della falsità.

Un esempio può mostrare la validità della logica pascaliana. Cercheremo anche di essere fedeli alla spiegazione del filosofo francese che abbiamo prima riportato. Vediamo che accade con la deduzione: "Il pesce ha le pinne e vive nell'acqua", "Il delfino ha le pinne e vive nell'acqua", "Il delfino è un pesce".
In queste proposizioni la prima e la seconda sono vere, ma anche la terza è vera secondo la logica, mentre è falsa secondo la realtà. Se assumiamo la logica tradizionale commettiamo una deduzione sbagliata perché tentiamo di evitare la contraddizione (il delfino ha le pinne e vive nell'acqua, ma non è un pesce), ritenendo che la contraddizione sia nemica della verità.
Soltanto un uso non rigido della negazione e del principio di non-contraddizione, così come indicato da Blaise Pascal, ci permette una conoscenza non fallace. Infatti la logica pascaliana ammette la contraddizione là dove non è consentita dalla logica tradizionale. In tal caso la logica pascaliana è più vicina alla realtà.
La logica tradizionale aveva invece fornito una formulazione della contraddizione che era troppo orientata all'esclusione. E fu talmente tanto esclusiva che il principio di non-contraddizione fu considerato insufficiente e accostato dal principio del terzo escluso.
Ovviamente, come sanno bene i logici, si è tentato di risolvere questi problemi con un uso più attento dei quantificatori. Ma tutto ciò ha finito per complicare la situazione con i risvolti descritti ampiamente nei manuali di storia della logica. I quantificatori possono essere usati correttamente se abbiamo una conoscenza perfetta degli insiemi su cui stiamo operando. Ma nei confronti della realtà noi non abbiamo una conoscenza completa degli elementi che la compongono. Cercare di salvaguardare la logica dandole uno statuto assoluto che la ponesse in un mondo separato da quello reale non è stata una soluzione soddisfacente. Che scopo avrebbe una scienza che non abbia alcun rapporto con la realtà? La matematica e la geometria hanno avuto nascita e sviluppo da esigenze molto concrete. Difficilmente si può accettare di chiamare scienza ciò che si distacca dalla realtà. Si è mai visto qualcosa che è conoscenza di ciò che non è nella realtà?

Ma cosa ha a che fare tutto ciò con il modo di ragionare dei giapponesi? Qui abbiamo voluto formalizzare ciò che adesso vedremo descritto in termini più discorsivi. Questa premessa era necessaria perché il livello di complessità a cui ci stiamo accostando è sempre maggiore e abbiamo bisogno di strumenti logici sempre più affinati per afferrare la razionalità giapponese.
Avevamo detto anche nell'introduzione che studiare il problema della diversità giapponese avrebbe comportato la rimessa in discussione del concetto di razionalità. E finora abbiamo rispettato quanto detto.

4.5 La forma giapponese della verità

Nel compiere la nostra esplorazione avventurosa, abbiamo spesso la fortuna di incontrare altri viaggiatori che ci fanno doni preziosi. Questa volta spetta a Karl Löwith. Nel 1936 il filosofo tedesco Karl Löwith, per sfuggire alle persecuzioni razziali, soggiornò in Giappone, dove insegnò all'Università di Sendai fino al 1941, anno in cui il Giappone entrò in guerra.
Questa esperienza di Löwith non fu marginale, ma influenzò non poco la sua concezione della storia della filosofia, soprattutto nella sua critica all'impostazione teologica ebraico-cristiana. Ciò gli fu possibile grazie all'esperienza in Giappone che gli aveva permesso di vedere la filosofia occidentale in modo distaccato e diverso.
Löwith fu un attento osservatore del mondo giapponese e scrisse interessanti saggi sulla mentalità dei giapponesi, attualmente riordinati e pubblicati in maniera più unitaria (37).
Löwith afferma che la verità giapponese non coincide con la verità occidentale. Ma soprattutto è l'uso che si fa del concetto di verità che è totalmente diverso. "In Giappone, comunque, la gentilezza - o meglio una bugia convenzionale - è il criterio di ciò che chiamiamo verità", ci spiega Löwith (38).
Egli aggiunge che i giapponesi sono "incapaci di rispondere in modo adeguato a domande che per loro sono troppo dirette e insistenti". Perciò la verità diventa qualcosa che è contrattato: "Che la verità si debba esprimere in modo franco rispecchiando un'opinione personale, è agli occhi del giapponese un segno di rozzezza e egoismo, perché non tiene in minimo conto i sentimenti dell'altro. Una verità negoziata in modo socievole, agevola un'atmosfera di reciprocità nel tacito accordo sulle regole del gioco".
Ma soprattutto Löwith ci indica con chiarezza cos'è la verità per i giapponesi: "Per loro la verità è una cosa tutta pragmatica, che può essere modificata a seconda della situazione concreta".
Löwith ci fornisce una definizione del concetto di verità giapponese davvero pregnante che diventa essenziale per il nostro modello di comprensione del pensiero giapponese. La verità occidentale si basa su una adaequatio rei et intellectus, un confronto e paragone con la realtà, mentre la verità giapponese è in relazione con la comunità degli individui in cui essa è condivisa. Il rapporto è completamente diverso.

Verità occidentale
Adeguatezza alla realtà
La verità è una sola
La verità è esterna al soggetto
Il criterio di giudizio è in rapporto ai fatti

Verità giapponese
Uso strumentale
Le verità sono molteplici
La verità è interna al soggetto
Il criterio di giudizio è in rapporto alla comunità


La verità giapponese non può usare il criterio della adaequatio rei et intellectus perché, come abbiamo visto in precedenza, non esiste una concezione della realtà come quella occidentale. La realtà del giapponese è la sua anima e il suo sentire, non altro.
Non esistendo una realtà oggettiva, non può esistere una verità oggettiva. Perciò la verità è qualcosa che è contrattato. Il risultato è una concezione relativistica della verità.
Questa concezione del relativismo della verità ha avuto un'esposizione artistica nel celeberrimo film Rashomon di Kurosawa Akira (39). Kurosawa mise in scena alcuni episodi tratti dall'omonimo libro di Akutagawa Ryunosuke (40). Uno di questi episodi è quello del racconto intitolato Yabu no naka (Nella boscaglia).
In un bosco è stato trovato il cadavere di un samurai, e per il delitto sono processati il bandito Tajomaru e la moglie del samurai. Essi sono interrogati. Il bandito dice di aver aggredito la coppia e di aver legato il samurai. Dopo aver avuto un amplesso con la donna, fu ella a suggerirgli di uccidere l'uomo e di scappare insieme. La moglie del samurai afferma invece che dopo essere stata violata, il marito la guardava con disprezzo. Ella lo uccise per punirlo. Ma attraverso una sciamana viene interrogato anche lo spirito del samurai. Il samurai dice di essersi ucciso per disperazione e per riscattare l'onore perso dopo aver visto la donna mettersi d'accordo con il bandito. Chi mente? Dov'è la verità nei tre racconti? La morale di questa vicenda è che "ricordiamo solo quello che ci fa comodo, e ci abbellisce agli occhi degli altri" (41).
Questo film di Kurosawa ebbe un enorme successo, tanto da essere premiato con il Leone d'oro nel settembre 1951. Per noi ha un immenso valore perché è la rappresentazione artistica del concetto di verità giapponese descritto da Löwith. Forse questa è la prima volta che si usa un film come documentazione di un trattato filosofico, ma noi siamo figli dei nostri tempi e sappiamo quanto sia forte l'influenza della cinematografia nella nostra epoca.

4.6 Uso della negazione nella lingua giapponese

Non sempre una negazione porta a un valore di verità contrario. Sarebbe forse sorprendente se si ritrovasse questo aspetto nella lingua giapponese? In effetti le cose stanno proprio così. La negazione nella lingua giapponese non è così forte come nelle lingue occidentali. Questo appare evidente, per esempio, nell'uso delle espressioni "mi piace" e "non mi piace".
Nel giapponese esistono due verbi: suki (essere piacevole) e kirai (essere sgradevole). Ma la negazione di suki non corrisponde pienamente a kirai.
Dire "ringo ga suki dewanai" (Non mi piacciono le mele) non significa che le mele sono sgradite, ma semplicemente che non sono fra la frutta preferita (quella che piace). Quindi è molto probabile che l'interlocutore mangi tranquillamente le mele. Mentre dire "ringo ga kirai da" (le mele mi sono sgradite), significa rifiutare le mele e quindi non mangiarle.
Queste differenze iniziano a diventare grandi in una conversazione reale, quando si esprimono i propri pensieri. I giapponesi si sorprendono apprendendo che in italiano "non piacere" (suki dewanai) corrisponde a "sgradire" (kirai da).
Formalizziamo anche questo aspetto del pensiero giapponese utilizzando suki e kirai.

Espressione Giudizio
suki da (+ + +)
suki dewanai (+ / -)
kirai dewanai (- / +)
kirai da ( - - -)

Con "suki da" si intende un preferenza per quella cosa, con "suki dewanai" che non c'è una preferenza, con "kirai dewanai" che non è sgradita, infine con "kirai da" che ci è sgradita. Queste quattro espressioni sono fra loro molto differenti secondo i giapponesi.
Come nella formalizzazione della logica di Pascal, otteniamo anche qui uno schema con quattro uscite. Il fatto che si ripeta questo "quadruplice sentiero" non è occasionale, ma ha una ragione interna. Non accettando la negazione come l'operatore che fornisce il valore inverso di quello dato, si finisce per sdoppiare i valori di verità di una proposizione che nella logica tradizionale potevano essere solo due.
Quello che può sorprendere è invece la corrispondenza fra logica pascaliana e lingua giapponese. Löwith diceva che la verità giapponese è pragmatica, quindi non dobbiamo stupirci se la forma logica che essa assume è quella quadruplice e non quella binaria della logica tradizionale e classica (che ha avuto il massimo sviluppo con la logica booleana).
Che la negazione non sia usata come nelle lingue occidentali ci è indicato anche da altri studiosi. Come segnalato dallo psicologo Paul Watzlawick(42), il pensiero occidentale ha una tendenza al ragionamento per negazioni (es.: se non è così, allora...), cosa che non avviene con frequenza nel pensiero giapponese(43).

4.7 Il principio dell'ombra

Finora abbiamo esposto quello che il pensiero giapponese non è, esponendo le diversità dal pensiero occidentale. Adesso possiamo dire anche quel che è. Eliminati il principio di identità e il principio di non-contraddizione, dobbiamo necessariamente trovare altri principi che siano alla base della logica giapponese. La ricerca non è difficile, considerando che i filosofi giapponesi hanno dedicato tutti i loro sforzi per individuare questi principi.
Come abbiamo visto in precedenza, Nishida, Tanabe e Mutai hanno fatto riferimento a una certa "logica dell'intuizione". Noi preferiamo usare un approccio sociologico alla teoria della comunicazione per chiarire con la massima scientificità ciò che potrebbe apparire oscuro utilizzando il linguaggio di questi autori.
Quindi useremo una definizione alternativa da quella fornita dai filosofi giapponesi. Ciò non perché vi sia una diversità, ma per semplici motivi di esposizione e semplificazione. Perciò faremo riferiamo alla nozione di "conoscenza tacita".
La nozione di "conoscenza tacita" è stata elaborata in etnologia e sociologia per indicare l'insieme di conoscenze e credenze condivise da una comunità che vengono usate implicitamente, senza una precedente esposizione delle regole. Le teorie sociologiche che fanno riferimento all'interazionismo simbolico hanno permesso di elaborare un modello alternativo a quello normativo (per es. Durkheim).
In questi modelli non esiste un sistema di regole, valori, status, ruoli che guiderebbero l'agire dell'individuo, ma esso nascerebbe dall'autointerazione (44). Tutti i modelli sociologici più recenti hanno messo in dubbio l'esistenza di un sistema di regole esplicito che guiderebbe l'azione dell'individuo. Detto ciò risulta più semplice comprendere la nozione di conoscenza tacita.
Si è sempre detto che il carattere orientale è quello di nascondere le cose rendendosi così misterioso e imperscrutabile. In proposito esiste un'importante opera che descrive minuziosamente questa caratteristica giapponese.
Si tratta del libro di Tanizaki Jun'ichiro intitolato In'ei raisan (Elogio dell'ombra) (45). Secondo Tanizaki tutta la sensibilità ed espressività giapponese nasce nell'ombra, ossia nel nascondere.
Questo principio dell'ombra può essere riportato all'interno del discorso sulla forma logica del pensiero giapponese. Soltanto il principio dell'ombra può spiegare i meccanismi di ragionamento privi del principio di identità e di non-contraddizione che abbiamo prima esposto.
Infatti principio d'ombra, da una parte, e principi d'identità e di non contraddizione, dall'altra, sono due sentieri divergenti. I principi della forma logica giapponese sono inconciliabili con i principi occidentali. Esiste veramente una logica alternativa del pensiero orientale.
I filosofi giapponesi hanno continuamente ripetuto e insistito sull'esistenza di una conoscenza intuitiva. Purtroppo è mancato un linguaggio filosofico che rendesse comprensibile questa nozione evanescente di conoscenza tacita. Oggi sono a nostra disposizione strumenti e teorie della comunicazione che ci permettono di riprendere e rendere accessibili le nozioni che risultavano sfuggevoli ai filosofi giapponesi.

In questo capitolo abbiamo dimostrato che esiste una logica alternativa alla logica occidentale. Questa rifiuta la regola di negazione, il principio di identità e il principio di non-contraddizione. A questi principi si sostituisce un principio intuitivo, il principio dell'ombra, che permette la formulazione di giudizi tramite l'interazione con la realtà.
La nozione di verità giapponese elaborata da Löwith ha fornito una spiegazione più chiara del principio d'ombra e come vengano formulati concretamente i giudizi nel pensiero giapponese. Tutto ciò sembra indicare non solo che esiste una forma di razionalità giapponese, ma che questa fonda talmente l'intero sistema cognitivo da avere leggi logiche proprie.

Note

1. Riguardo alla posizione di Davidson si legga: Davidson, D., Inquieres into truth and interpretation, Oxford University Press, Oxford, 1984. (trad. it. Davidson, D., Verità e interpretazione, Il Mulino, Bologna, 1994). Per la nozione di "schema concettuale": Davidson, D., On the very idea of a conceptual scheme, in "Proceedings of the American Philosophical Association", n. 47, 1974, pp. 5-20 (trad. it. Davidson, D., La svolta relativistica nell'epistemologia contemporanea, Franco Angeli, Milano,1988, pp. 151-167). In giapponese si può consultare il volume curato da Hattori Hiroyuki e Shibata Masayoshi: Davidson, D., Koi to dekigoto, Keiso Shobo, Tokyo, 1990. Esiste anche un commento a quest'opera di Davidson: Kashiwabata, Tatsuya, Koi to dekigoto no sonzairon, Keiso Shobo, Tokyo, 1997.
2. Moritomo, Tetsuro, Nihongo omote to ura, Shinchosha, Tokyo, 1985.
3. Ricordiamo che anche Habermas ha fornito una straordinaria elaborazione della teoria di Weber, ma l'epistemologia non ha ben recepito il suo lavoro: Habermas, Jürgen, Teoria dell'agire comunicativo, Il Mulino, Bologna, 1985.
4. Cfr. Franco Ferrarotti nella prefazione alla seconda edizione di Weber, Max, Sociologia delle religioni, UTET, Torino, 1988, pp. 7-11.
5. Wittgenstein, Ludwig, Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino, 1967, pp. 9-10 e pp. 102-117.
6. Austin, John L., Come fare cose con le parole, Marietti, Genova, 1987, pp. 7-32.
7. Rorty, Richard, Conseguenze del pragmatismo, Feltrinelli, Milano, 1986, pp. 39-51 (trad. giapp. a cura di Yuroi Hisashi: Rorty, Richard, Tetsugaku no datsuochiku: puragumatizumu no kiketsu, Ochanomizu Shobo, Tokyo, 1985).
8. Rorty, Richard, Conseguenze del pragmatismo, Feltrinelli, Milano, 1986, p. 51.
9. Le opere in lingue occidentali dedicate alla storia della filosofia giapponese sono davvero poche. Consigliamo per la filosofia giapponese contemporanea: Piovesana, G. K., Recent japanese philosophical thought 1862-1962. A survey, Enderle Bookstore, Tokyo, 1963 (trad. it. Piovesana, G. K., Filosofia giapponese contemporanea, Patron, Bologna, 1968), Oe, S., "Japan", in Les grands courants de la pensée mondiale contemporaine, Marzorati, Milano, 2 voll., 1959, pp. 935-963. Per quanto riguarda la filosofia giapponese antica è invece sufficiente consultare i testi dedicati allo zen, per esempio: Hisamatsu, Shin'ichi, La pienezza del nulla, Il Melangolo, Genova, 1993. Ovviamente i testi in giapponese sono invece numerosissimi, qui ricordiamo Yura, Tetsuji, Tetsugakushisojiten, Fuji Shoten, Tokyo, 1948.
10. Hashizume, Daisaburo, Bukkyo no gensetsu senryaku, in "Gendaishiso", numero speciale, voll. 13-14, pp. 272-291, Seidosha, Tokyo, 1985.
11. Sono tanti i testi che presentano le affinità fra il pensiero di Wittgestein e lo zen, si veda: "Wittgenstein and zen" in Canfield, John V., The philosophy of Wittgenstein, "Elective affinities", Vol. 15, Garland Publishing, 186, pp. 383-408 e Wiehnpahl, Paul, Zen and work of Wittgenstein, in "Chicago Review", Vol. 12, n. 2, 1958, pp. 67-72.
12. Per le logiche devianti si consulti Marsonet, Michele, Introduzione alle logiche polivalenti, Abete, Roma, 1976.
13. Soltanto Feyerabend ha insistito sulla pluralità dei diversi tipi di razionalità. In proposito si legga Marsonet, Michele, Scienza e analisi linguistica, Feltrinelli, Milano, 1994, p. 45.
14. Nishida, Kitaro, Nishida Kitaro zenshu bekkan 1, Nikki, Iwanami Shoten, Tokyo, 1951, p. 4.
15. Sul valore della dialettica hegeliana da un punto di vista logico si legga Marsonet, Michele, Logica e linguaggio, Pantograf, Genova, 1993, p. 59.
16. Miki, Kiyoshi, Kosoryoku no ronri, Iwanami Shoten, Tokyo, 1946 .
17. Cfr. Nishida, Kitaro, Nishida Kitaro zenshu, Iwanami Shoten, Tokyo, 1949, vol. 7, p. 204 e vol. 1, p. 86.
18. Miki, Kiyoshi, Pascal ni okeru ningen no kenkyu, Iwanami Shoten, Tokyo, 1980.
19. Miki, Kiyoshi, Kosoryoku no ronri, Iwanami Shoten, Tokyo, 1946.
20. Tanabe, Hajime, Kagaku gairon, Iwanami Shoten, Tokyo, 1918.
21. Si consulti Tanabe, Hajime, Tanabe Hajime zenshu, Chikuma Shobo, Tokyo, 1976.
22. Tanabe, Hajime, Zangedo toshite no tesugaku, Iwanami Shoten, Tokyo, 1946.
23. Takahashi, Satomi, Husserl no genshogaku, Nipponsha, Tokyo, 1931.
24. Bergson, Henri, Busshitsu to kioku, Iwanami Shoten, Tokyo, 1936.
25. Takahashi, Satomi, Ho benshoho, Risosha, Tokyo, 1947.
26. Watsuji, Tetsuro, Watsuji Tetsuro zenshu, Iwanami Shoten, Tokyo, 1992.
27. Watsuji, Tetsuro, Fudo: ningengakuteki kosatu, Iwanami Shoten, Tokyo, 1979.
28. Mutai, Risaku, Basho no ronrigaku, Kobundo, Tokyo, 1944.
29. Mutai, Risaku, Shisaku to kansatsu, Keiso Shobo, Tokyo, 1971.
30. Si tratta dei paragrafi 5.5301, 5.5302, 5.5303 e 5.533 del Tractatus logico-philosophicus. Cfr. Wittgenstein, Ludwig, Tractatus logico-philosophicus, Einaudi, Torino, 1989, pp. 120-123.
31. Miki, Kiyoshi, Pascal ni okeru ningen no kenkyu, Iwanami Shoten, Tokyo, 1980.
32. Pascal, Blaise, Frammenti, Rizzoli, Milano,1983, p. 242. Corrispondono ai pensieri nel catalogo Brunschvicg n. 384 e nel catalogo Lafuma n. 177.
33. Ibidem, p. 121. Catalogo Brunschvicg n. 82 e nel catalogo Lafuma n. 44.
34. Il problema dell'antinomia di Russell fu di importanza capitale per la scienza. Esso mise in crisi il progetto di Frege che tentava di fondare la matematica tramite la logica. E di conseguenza minò anche il tentativo di Hilbert per un programma che formalizzasse le teorie matematiche. Russell cercò di proporre una soluzione all'antinomia con la teoria dei tipi. Infatti l'antinomia russelliana nasce, come egli stesso spiega, da un problema di insiemistica. Russell stimava il lavoro di Cantor sulla teoria degli insiemi, e cercò una soluzione al suo interno, così come dimostra la teoria dei tipi. La nostra soluzione invece si basa sulla non accettazione dei pincipi di identità e non contraddizione. Crf. Russell, Bertrand, I principi della matematica, Longanesi, Milano,1951, pp. 713-721.
35. In questi ultimi anni, John McDowell ha insistito molto sul principio di contestualità rielaborando a suo modo alcune proposte kantiane. In proposito si consulti la seguente relazione: Bezante, Alessandro e Martorella, Cristiano, Sul saggio di McDowell "De re senses", Corso di Filosofia del linguaggio (docente Carlo Penco), Facoltà di Lettere e Filosofia, Università degli Studi di Genova, A.A. 1998-1999. Le proposte di McDowell sono molto interessanti e originali discutendo anche le idee di Evans e Burge. Si legga McDowell, John, Mind and world, Harvard University Press, Cambridge, 1996 (trad. it. McDowell, John, Mente e mondo, Einaudi, Torino, 1999); Evans, Gareth e McDowell, John, Truth and meaning, Clarendon Press, Oxford, 1976; Evans, Gareth e McDowell, John, The varities of reference. Clarendon Press, Oxford, 1982.
36. Abbiamo scelto di formalizzare attraverso le tavole di verità per rendere più evidente le funzioni che si ottengono eliminando la regola della negazione, il principio di identità e il principio di non contraddizione. Si è scelto di ignorare altre proposte di logiche devianti, come quella molto elegante elaborata da Lukasiewicz, per cercare di essere fedeli ai suggerimenti di Pascal.
37. Löwith, Karl, Scritti sul Giappone, Rubettino, Soveria Mannelli, 1995.
38. Ibidem, p. 27.
39. Kurosawa, Akira, L'ultimo samurai, Baldini & Castoldi, Milano, 1995 pp. 307-308.
40. Akutagawa, Ryunosuke, Rashomon, Hanada Bunka, Taipei, 1995.
41. Kurosawa, Akira, L'ultimo samurai, op. cit., p. 307.
42. Paul Watzlawick lavora al Mental Research Institute di Palo Alto e si occupa soprattutto dei problemi che collegano comunicazione e cognizione. Si veda Watzlawick, Paul, La realtà della realtà, Astrolabio, Roma, 1976.
43. Lezioni di Giorgio Nardone tenute alla Facoltà di Sociologia dell'Università di Napoli nei giorni 14 aprile e 12 maggio 1994, nell'ambito del corso di Psicologia sociale (docente Stanislao Smiraglia).
44. Blumer, Herbert, Symbolic interactionism: perspective and method, Prentice Halls, Englewood Cliffs, 1968 .
45. Tanizaki, Jun'ichiro, In'ei raisan, Chuo Koron Sha, Tokyo, 1975.