martedì 8 giugno 2010

Crisi economica giapponese

La crisi economica giapponese cominciò a essere avvertita nel 1991, e poi esplose nel 1992 causando l'avviamento di un ciclo recessivo e negativo durato decenni. Alla luce della crisi economica attuale, è interessante rileggere il mio articolo Keizaiteki kiki scritto in proposito. Infatti l'articolo è utile per comprendere come l'attuale crisi provenga da lontano e sia stata generata da una applicazione di sconsiderate teorie economiche che non tengono in considerazione la storia, le condizioni e lo sviluppo concreto dei paesi.



Keizaiteki kiki. La crisi economica giapponese
di Cristiano Martorella

2 dicembre 2001. L’espressione keizaiteki kiki (letteralmente crisi economica) è pienamente adeguata a descrivere la storia giapponese dell’ultimo decennio del XX secolo.

Dopo quasi mezzo secolo di crescita economica a livelli elevati, il Giappone conobbe una grave e inaspettata recessione agli inizi degli anni ’90. Tra il 1950 e il 1973 l’economia crebbe al tasso medio del 10% annuo, raddoppiando la propria dimensione ogni sette anni (crescita elevata, definita in giapponese koudo seichou). Intorno al 1974-1975 vi fu un drastico rallentamento provocato dalla grave crisi petrolifera internazionale. Superato questo breve periodo, la crescita riprese a buoni ritmi. Nel 1986 vi fu il fenomeno della bubble economy, una speculazione sulle aree immobiliari e il mercato azionario che arricchì tantissimi ma creò diverse anomalie. Infatti nel 1991 si manifestò la crisi che portò a un tasso di crescita di appena lo 0,1% nel 1993.

In un primo momento le autorità giapponesi sottovalutarono la crisi, negando anche che si trattasse di una recessione profonda e illudendosi che fosse un momentaneo rallentamento. I governi giapponesi pensarono di poter invertire il trend negativo con qualche operazione di aggiustamento, dimostrando una miopia considerevole. Tra il 1992 e il 1995 furono applicati diversi pacchetti economici, tutti inefficaci. Queste politiche economiche non potevano avere effetto perché paradossalmente erano la causa della recessione. Il finanziamento pubblico indiscriminato aveva creato enormi debiti e messo in crisi il settore finanziario gettando le maggiori banche in un gorgo che le trascinava inesorabilmente al fallimento.

La totale incomprensione della situazione economica da parte della classe dirigente si palesava in imbarazzanti silenzi. Si dovette aspettare l’elezione nel 2001 di Koizumi Jun’ichiro per sentire delle parole chiare sulla crisi giapponese. Il premier non alimentò più le false illusioni e dichiarò che la gravità della situazione imponeva sacrifici per tutti. Koizumi prometteva anche una serie di riforme che avrebbero cambiato drasticamente l’assetto strutturale dell’economia giapponese. Riforme auspicate anche all’estero e che facevano identificare la politica di Koizumi con la tendenza neoliberista di molti paesi occidentali. Ma anche le previsioni di Koizumi si rivelarono eccessivamente ottimiste nonostante il suo atteggiamento realista e pragmatico. Ciò che stava accadendo in Giappone era molto grave e dimostrava ancora una volta quanto economisti, sociologi e analisti sapessero ben poco del mondo che studiavano. Intanto non si era tracciato un quadro interpretativo del fenomeno. Sui giornali di tutto il mondo si parlava di crisi economica giapponese senza specificarne le modalità.

Abbiamo detto che le manovre economiche dei governi giapponesi fra il 1992 e il 1995 non furono la soluzione, ma favorirono la continuazione della crisi. La crisi economica giapponese non fu soltanto causata dall’esplosione della bolla speculativa degli anni ’80. Ogni tipo di speculazione arricchisce qualcuno a scapito di qualcun altro. Ma questo genere di deformazione trova il modo di essere riequilibrata in breve tempo all’interno di un’economia sana. Se non fosse così, il sistema delle borse internazionali sarebbe fallito in pochi anni. Una crisi che perdurava da più di un decennio non poteva essere definita come il riflesso di una speculazione. In un sistema economico integrato come quello giapponese, finanza e apparato statale lavoravano insieme su programmi di lungo termine. Questo genere di politica economica era in passato orchestrata dal MITI (poi divenuto METI), il Ministero del Commercio Estero e dell’Industria. I finanziamenti alle imprese erano operati su criteri di fiducia, in base a credenziali molto difficili da definire in termini tecnici e legate maggiormente a vincoli relazionali (spesso determinati in modo personale e umano).

La seconda particolarità dell’economia giapponese era costituita dagli straordinari attivi dovuti all’esportazione. Questo significa, come contraltare, che il mercato interno del Giappone è insufficiente a coprire in modo discreto l’offerta dell’industria nipponica. E questo non deve sembrare paradossale per un paese considerato come la civiltà del consumismo. In realtà si tratta di uno stereotipo che non tiene presente i fattori materiali e geografici. Le risorse di spazio in Giappone sono estremamente limitate per la presenza di aree montuose e boschive (le quali occupano il 75% del territorio), e che i giapponesi preferirebbero conservare integre, non soltanto per motivi ambientalisti, ma per ragioni storiche e pratiche. Lo sviluppo urbano negli ultimi secoli è avvenuto lungo le coste. Ripensare la geografia urbana del Giappone per conquistare i terreni interni e montuosi da riconvertire all’edilizia sarebbe un impegno titanico (e vano) per creare collegamenti, disboscare, cementificare. La mancanza di risorse naturali ha decretato una vocazione all’esportazione di prodotti tecnologici, un bene che i giapponesi dimostrarono con eccellenza di saper realizzare. Non si deve però credere a un mito tecnologico confondendo il primato dei giapponesi nel settore come una facoltà innata. Ciò provocherebbe confusione, associando l’idea della tecnologia elettronica a una specie di antropologia culturale. E sarebbe un torto arrecato ai giapponesi stessi che si impegnarono fino allo stremo, con enormi sacrifici, per costituire uno stato moderno e competitivo alla pari delle maggiori potenze occidentali.

La tecnologia giapponese non era il prodotto di una semplice applicazione delle tecniche occidentali. Il Giappone non aveva le risorse dell’Impero Britannico, né della Germania, e quanto meno degli Stati Uniti, paese che poteva vantare giacimenti petroliferi e filoni auriferi. La tecnologia non può svilupparsi senza risorse energetiche e il Giappone partiva con questo handicap gravoso. Gli intellettuali giapponesi, come ad esempio Fukuzawa Yukichi (1835-1901), erano pienamente consapevoli dei limiti imposti al loro paese. L’unica risorsa che il Giappone possedeva in abbondanza, accumulata in secoli di storia, era una volontà ferrea, il seishin. Quello stesso seishin (spirito di volontà) che viene rimproverato ai giapponesi attuali come un tratto caratteriale antiquato e retrogrado, caratteristica e retaggio di una cultura samuraica.

Lasciando da parte questo genere di speculazioni e ritornando all’economia, possiamo riconoscere l’applicazione di uno spirito illuminista nella società giapponese dell’Ottocento che diede l’avvio all’ascesa del capitalismo giapponese. Lo spirito illuminista europeo fu l’anima vibrante dell’economia del XVIII e XIX secolo: il concetto di laissez faire, l’idea di un mercato internazionale, il riconoscimento del valore aggiunto, e soprattutto una società concepita sul lavoro. Si passava dall’idea contadina della terra come bene assoluto, all’idea moderna del lavoro come produzione di beni. Un cambiamento epocale. Molti intellettuali giapponesi, influenzati ancora dal seishin, riconobbero nelle idee superiori dell’Illuminismo un principio da perseguire con tenacia, con volontà ferrea. La modernità era considerata un’ideale da tramutare nella società ad ogni costo. Nakae Chomin (1847-1901) tradusse il Contratto sociale di Rousseau, Fukuzawa Yukichi (1835-1901) scrisse Gakumon no susume (Incoraggiamento al sapere), Mitsukuri Rinsho (1847-1897) tradusse il codice civile francese. I risultati si fecero sentire. La riforma del 1871 eliminò le vecchie classi sociali, i privilegi e le restrizioni. Con lo shimin byodo (parità delle quattro categorie), il 99% della popolazione si trovò istituzionalmente allo stesso livello. Il Giappone fu il primo paese asiatico a dotarsi di una costituzione (1889). I paradossi della nazione tramutarono lo svantaggio in una occasione straordinaria.

La debolezza del paese era evidente a tutti, dai cittadini alle classi dirigenti. Ciò che accade comunemente in situazioni simili, è quello spostamento d’interessi del governo verso la conservazione del proprio potere a discapito della collettività. Una tendenza egoistica teorizzata in parte da Otto Hintze. Cosa che d’altronde molti storici attribuiscono anche allo stesso Giappone della Restaurazione Meiji. Ma l’innesto delle idee illuministe nella società giapponese ebbe un effetto inaspettato e sotterraneo. Il periodo Edo (1600-1867) aveva profondamente cambiato i rapporti di forza fra le classi, a favore di una emergente borghesia. L’arrivo delle idee illuministe fu come gettare benzina sul fuoco. Il Giappone era povero di risorse materiali, ma particolarmente ricco di risorse intellettuali. L’Illuminismo alimentava la fiducia nella ragione e nelle sue capacità. I politici giapponesi credettero di poter battere l’Occidente usando l’intelligenza e, in maniera metaforica, accettarono nel loro pantheon di divinità scintoiste anche la dea dei lumi. L’espressione "toyo dotoku seiyo geijutsu" (morale orientale e tecnica occidentale) può essere interpretata anche come "intelligenza" giapponese nell’applicazione del sapere. Erano infatti le idee illuministe che affermavano l’universalità della ragione e il relativismo delle culture. La scienza non era dunque una prerogativa culturale europea.

L’economia giapponese del XIX e XX secolo si sviluppò quindi come un’economia della concertazione, di un tacito contratto sociale sottoscritto da tutti i cittadini: uno stato economicamente più forte per il bene di tutti. Quando questo modello si dimostrò vincente nel XX secolo, molti intellettuali giapponesi si accanirono per dimostrare le origini della coesione sociale giapponese nell’applicazione dei principi confuciani. Primo fra tutti Morishima Michio, autore di Why has Japan Succeeded? Tutto ciò lascia perplessi. La necessità ideologica di creare una spiegazione orientale alla storia economica giapponese tentava di negare come fosse stato lo spirito illuminista a innescare la scintilla del capitalismo giapponese. Il confucianesimo è la forma di pensiero conservatore più stabile che sia stata formulata. Confucio affermava: "Io non creo, seguo la tradizione" (I dialoghi, VII, 1). Il confucianesimo è funzionale al mondo contadino, e notevolmente in contraddizione con la modernità. I giapponesi non potevano ammettere d’aver applicato i principi illuministi degli occidentali in una società influenzata da altri fattori, come ad esempio il pensiero buddhista, una religione che ridimensionava le tendenze individualiste. Anzi, volevano negarlo, facendo credere d’aver usato soltanto le tecniche degli occidentali (wakon yosai) e non il loro spirito. In realtà la società giapponese era una creazione totalmente nuova e originale che non poteva essere attribuita né alla tradizione orientale né alla scienza occidentale. Era qualcosa di completamente nuovo. Gli intellettuali, con l’appoggio della classe politica, avevano creato nel periodo Meiji (1868-1912) una creatura simile al mostro descritta nel romanzo Frankenstein di Mary Shelley. Dal laboratorio Giappone era uscita una creatura composta di pezzi diversi: principi illuministi, tecniche occidentali, spirito buddhista, vitalismo shintoista, regole confuciane. Dunque non bisogna meravigliarsi se oggi, nel XXI secolo, nessuno è in grado di spiegare i fenomeni economici giapponesi. Il mostro è terribile nella sua magnificenza.

Il Giappone è entrato in una profonda crisi economica per ragioni intrinseche del suo sistema, le stesse ragioni che furono motivo di riscossa e ascesa. Sarebbe sbagliato credere, come fa Vittorio Volpi, che il sistema giapponese presenti delle anomalie anacronistiche dovute a un mancato sviluppo liberale della sua economia. Volpi considera il modello occidentale come panacea di tutti i mali. Ma dimentica quanto i giapponesi siano stati più occidentali di chiunque altro nell’applicazione dei principi illuministi. Una liberalizzazione economica sfrenata e selvaggia non porterebbe soltanto vantaggi, ma anche storture ragguardevoli. Ad esempio, l’abbandono in mano a privati privi di scrupoli delle centrali nucleari, con rischi incalcolabili (come segnalato da un articolo di Pio d’Emilia).

La situazione giapponese è delicata, perciò bisogna essere cauti nelle affermazioni. A volte le crisi economiche si sono tramutate in svolte autoritarie, come nel caso della Repubblica di Weimar. Se non vogliamo creare l’emersione di un neoimperalismo giapponese, bisogna eliminare questo clima di contrapposizione che trasforma il Giappone in un caso patologico. In un mondo globalizzato i problemi vanno affrontati insieme, e nessuno deve ergersi a maestro sull’altro.

Avendo tracciato un piccolo quadro storico, possiamo meglio capire cosa è accaduto negli anni ’90. Le banche giapponesi, come era prassi consolidata, avevano finanziato le imprese anche quando le condizioni non erano favorevoli. Rispetto al passato, esistevano però una serie di fattori concomitanti che non permettevano più una simile procedura. Soprattutto la crisi mondiale all’inizio degli anni ’90, la quale colpì gravemente gli Stati Uniti (che ne uscirono grazie all’amministrazione Clinton) e in seguito le "tigri asiatiche" (Corea del sud, Singapore, Taiwan, Hong Kong). Il Giappone era troppo dipendente dalle esportazioni, e le difficoltà dei suoi clienti stranieri ebbero gravi ripercussioni. L’industria nipponica era sana, produttiva, altamente competitiva, ma la mancanza di vendite provocate dalla crisi che aveva attanagliato i paesi stranieri ebbe un effetto superiore alle aspettative. Le banche che avevano sostenuto e coperto i passivi delle imprese furono trascinate in una spirale perversa. Le imprese fallivano e i debiti non venivano riscossi. In breve tempo il settore bancario giapponese entrò in crisi. Gli istituti bancari chiudevano uno dopo l’altro. Sembrava un collasso inconcepibile. La situazione si stabilizzò dopo l’intervento del governo a sostegno del settore finanziario. Ma la situazione era ormai compromessa. C’erano però aspetti paradossali: il Giappone era il maggior creditore fra i paesi del mondo. La sua crisi era dovuta soltanto a una concomitanza di eventi che erano particolarmente significativi e dannosi per il suo sistema altamente integrato (che crea quindi dipendenze e relazioni forti fra i diversi settori economici).

Omae Ken’ichi (trascritto anche Ohmae Kenichi), nel suo Il continente invisibile, ci presenta una storia della crisi economica giapponese che fornisce nuovi elementi interpretativi. Secondo Omae, negli anni ’90 sarebbero stati gli Stati Uniti a imporre le scelte economiche dei giapponesi. Egli denuncia che i sostenitori americani del libero mercato sono gli stessi che chiedono ai governanti giapponesi di ricostruire l’economia nipponica attraverso investimenti statali. Tra il 1998 e il 2000, il governo statunitense ha chiesto al governo giapponese di abbassare a zero i tassi d’interesse, di ridurre la pressione fiscale, aumentare la spesa pubblica e salvare le banche. Omae ritiene che la spesa pubblica sia la causa della crisi e che gli Stati Uniti stiano chiedendo al Giappone manovre economiche che impediscano la ripresa.

Uscirà il Giappone dalla crisi che l’ha attanagliato? E in quale modo? Non spettano a noi queste risposte. Sarebbe estremamente presuntuoso pensare di poter parlare per gli altri. Sarà il popolo giapponese a fornire le risposte alle domande che ci siamo posti. Possiamo soltanto immaginare che le risorse che i giapponesi potranno sfruttare sono quelle che abbiamo già individuato: la creatività e l’ingegno intellettuale.



Bibliografia

Ito, Takatoshi, L’economia giapponese, EGEA, Milano, 1995.
Morishima, Michio, Why has Japan Succeeded?, Cambridge University Press, Cambridge, 1982.
Omae, Ken’ichi [Ohmae Kenichi], Il continente invisibile, Fazi Editore, Roma, 2001.
Halliday, Jon, A Political History of Japanese Capitalism, Pantheon Books, New York, 1975
Takaiya, Taichi, Taihen na jidai, Kodansha, Tokyo, 1998.
D’Emilia, Pio, Aiuto! Il nucleare è in mano ai kamikaze, in "Sette", 30 novembre 2000.
Volpi, Vittorio, Un Big Bang alla giapponese, in "Italia Giappone Oggi", anno XIV, n.56, novembre 1996.
Yanaga, Chitoshi, Big Business in Japanese Politics, Yale University Press, New Haven and London, 1969.