sabato 19 agosto 2023

Free and Open Indo-Pacific Strategy

Articolo pubblicato dalla rivista "Panorama Difesa". 

Cfr. Cristiano Martorella, La FOIP e le mire egemoniche cinesi, in "Panorama Difesa", n. 397, anno XXXVIII, giugno 2020, pp. 58-69.  




La FOIP e le mire egemoniche cinesi 

La "Free and Open Indo-Pacific Strategy" è una efficace risposta al progetto geopolitico della "Nuova Via della Seta", e potrebbe essere una credibile alternativa capace di contrastare le ambizioni egemoniche cinesi.  

di Cristiano Martorella 


Il concetto di Free and Open Indo-Pacific Strategy fu esposto per la prima volta dal premier giapponese Shinzo Abe nell'agosto 2016, durante la Tokyo International Conference on African Development (TICAD) svoltasi in Kenya, e prevede la realizzazione di una maggiore integrazione fra le economie africane e asiatiche nella regione che va dall'Oceno Pacifico all'Oceano Indiano. Il progetto ha trovato l'immediato sostegno di Stati Uniti, India e Australia, e costituisce un evidente tentativo per contrastare la Belt and Road Initiative (meglio conosciuta come "Nuova Via della Seta") proposta dalla Cina nel 2013. Il concetto alla base della Free Open Indo-Pacific (FOIP) si distingue per una maggiore enfasi posta sui valori democratici, sulla trasparenza e sulla sostenibilità dei progetti, e l'impiego di massicci investimenti infrastrutturali che coinvolgano anche la manodopera locale (a differenza di ciò che accade con i progetti cinesi). Ovviamente i risvolti militari saranno enormi, perché si prevede di garantire la libertà di navigazione e la circolazione delle merci in un'immensa regione del mondo, dove già adesso esistono molti contenziosi territoriali (la maggior parte provocate dalle irrisolte rivendicazioni cinesi). I sostenitori della strategia sono innanzitutto i paesi che costituiscono il cosiddetto Quad (formalmente noto come Quadrilateral Security Dialogue), ovvero Stati Uniti, Giappone, Australia e India, che rappresentano il nocciolo duro del progetto, a cui si prevede l'adesione di numerose nazioni del Sud-Est Asiatico come Filippine, Thailandia, Vietnam, Singapore e Indonesia. Le implicazioni di questa strategia sono davvero importanti e complesse, e meritano senza dubbio un'analisi particolare. 


L'importanza della "Nuova Via della Seta"

Prima di affrontare un'analisi della Free Open Indo-Pacific (FOIP) è però necessario inquadrare correttamente e approfonditamente il significato della "Nuova Via della Seta", a cui si oppone non soltanto come sistema di infrastrutture, ma anche  ideologicamente. In proposito è utile ricordare come l'economia sia innanzitutto considerata dai cinesi come un fattore competitivo di straordinario valore militare, e venga inquadrata nell'ambito di una concezione multidimensionale della guerra. Fra gli strateghi che hanno messo in risalto tale aspetto, meritano di essere citati Wang Xiangsui e Qiao Liang, autori del libro Guerra senza limiti, scritto nel 1999, in cui si sosteneva la necessità per la Cina di affrontare gli Stati Uniti in una guerra non convenzionale, sfruttando l'economia, manipolando la finanza e ottenendo il controllo dei media. Questo approccio è molto radicato nel pensiero cinese, e può essere rintracciato nella tradizione, a partire dal classico L'arte della guerra di Sun Tzu, ma soprattutto con I metodi si Sima (Sima Fa), dove si ribadisce come la guerra sia uno strumento di governo, che il potere derivi dall'autorità, e che ogni mezzo sia lecito per mantenerlo. Ciò si ricollega anche al pensiero della Scuola del Legalismo (Fajia), che fu più importante perfino del pensiero di Confucio, e affermava la sua concezione politica secondo la quale la supremazia dello stato sull'individuo deve essere assoluta, ed è da perseguire con qualsiasi mezzo e metodo. 

Questa prospettiva è stata ripresa nei nostri tempi, secondo i precetti della guerra asimmetrica e non convenzionale, ed è stata riproposta nel progetto della cosiddetta "Nuova Via della Seta", ufficialmente definita come Belt and Road Initiative. Il piano è nato da una proposta di Wang Jisi, preside della Scuola di Studi Internazionali dell'Università di Pechino, che nel 2012 suggerì sulle pagine del Global Times di "orientare a ovest" lo sforzo diplomatico ed economico della Cina, creando collegamenti più forti con l'Africa, il Medio Oriente e l'Europa. Il progetto fu poi presentato ufficialmente dal presidente Xi Jinping nel settembre 2013, e divenne noto come Belt and Road Initiative (anche conosciuto come One Belt One Road, in cinese Yi dai yi lu). La Cina intende così costruire nuove infrastrutture (porti, ferrovie e strade) per sfruttare le risorse energetiche e minerarie dell'Africa e del Medio Oriente, e incrementare le esportazioni verso l'Europa. Per fare ciò sono state individuate due strade, la prima costituita da una strada terrestre, e la seconda rappresentata dalle rotte marittime. Inoltre si vuole ottenere il controllo completo del sistema logistico, dei mezzi di trasporto e comunicazione, affermando così la propria supremazia assoluta. Tuttavia gli accordi commerciali presentati come estremamente vantaggiosi per i partner, sono soltanto utili per conseguire i progetti della Cina, e nascondono anche obiettivi militari come la creazione di nuove basi militari all'estero, e soprattutto di porti in grado di ospitare le navi da guerra, oltre che nel Sud-Est Asiatico e nell'Oceano Indiano, anche nel Mediterraneo. 

L'intero progetto riprende infatti le teorie di due classici della geopolitica, ovvero Halford Mackinder (1861-1947) e Nicholas Spykman (1893-1943). Secondo il geografo inglese Mackinder, esisterebbe un perno geografico del mondo che se controllato permetterebbe di governare l'intero pianeta, mentre il professore di relazioni internazionali Spykman sosteneva che l'area determinante di questo dominio sarebbe rappresentata invece dai mari circostanti ai continenti. Le due terorie sono quindi riassunte dai concetti di Heartland per Mackinder e Rimland per Spykman. Ebbene, la Belt and Road Initiative costituisce un modo per coniugare entrambe le teorie geopolitiche perché intende esercitare un serrato controllo sul continente attraverso la strada terrestre, e un dominio sui mari tramite le rotte marittime commerciali. Ovviamente, con il pretesto di garantire la sicurezza delle infrastrutture, ogni presidio sarebbe rapidamente tramutato in una base militare o un avamposto pesantemente occupato dalle forze militari cinesi. Unendo le teorie di Mackinder e Spykman, si mostra chiaramente che l'obiettivo è ottenere il controllo totale del mondo, potendo così gestire la più grande area del pianeta costituita da Europa, Asia e Africa.  


Una economia predatoria 

Quando nel 2001 fu deciso di ammettere la Cina nel WTO (World Trade Organization), si pensò da parte occidentale di poter approfittare del potenziale mercato interno del paese asiatico, così da fornire un enorme accesso per le merci delle multinazionali americane ed europee. Al contrario, questa convinzione si è poi rivelata una clamorosa ingenuità, che già a suo tempo fu denunciata dall'economista Haruhiko Kuroda, attualmente governatore della Banca del Giappone. In realtà, la Cina ha approfittato delle contraddizioni della globalizzazione, sfruttando la mancanza di regole, il mercato selvaggio, e la tendenza a calpestare i diritti dei lavoratori. In poco tempo, ha copiato tutti i prodotti occidentali, riversando sul mercato mondiale imitazioni a basso costo, realizzate ovviamente tramite condizioni di lavoro semischiavistiche, e ha eliminato ogni concorrenza attraverso pratiche scorrette (e palesemente illegali nei paesi occidentali). Questo fenomeno storico ha permesso agli studiosi di definire l'attività commerciale cinese come "economia predatoria", perché basata su attività illecite come la copia dei brevetti, il dumping (vendita di prodotti a prezzi inferiori per eliminare la concorrenza), e lo sfruttamento di manodopera a basso costo, con l'obiettivo finale di eliminare i concorrenti dal mercato, e di impossessarsi di interi settori commerciali. Ciò sta avvenendo anche per quanto riguarda la "Nuova Via della Seta", come dimostrato dal caso eclatante dello Sri Lanka, che è divenuto a suo discapito una vittima esemplare del comportamento cinese. Infatti, il porto di Hambantota in Sri Lanka è stato costruito da aziende cinesi, ma le esose richieste di pagamento hanno creato un debito inesegibile, e nel 2017 i cinesi si sono impossessati del porto ottenendone la concessione per 99 anni. Questo comportamento merita a pieno titolo la definizione di "economia predatoria", e non è certo l'unico caso di una condotta che è talmente diffusa da aver creato una pessima fama ai cinesi in Asia, ormai considerati perfidi approfittatori. Inoltre, dimostra che ai cinesi non interessa affatto la crescita economica dei partner, anzi al contrario, si persegue il loro indebolimento per meglio controllarli, e applicare il proprio sharp power (potere di influenza e manipolazione). Anche per contrastare questi comportamenti è stata ideata la Free and Open Indo-Pacific Strategy, che intende fornire finanziamenti trasparenti, senza un indebitamento insostenibile, ai paesi in via di sviluppo, e ciò avverrebbe attraverso forme di pagamento oneste e non onerose. 


I furti di brevetti 

La diatriba sul rispetto della proprietà intellettuale e la tutela dei brevetti, è ancora oggi al centro dello scontro fra Stati Uniti e Cina, e costituisce uno degli argomenti fondamentali del tentativo di accordo avviato dopo la cosiddetta "guerra dei dazi" scatenata dal presidente Donald Trump. Tuttavia la questione è ben lontana dall'essere risolta, a causa di diverse e complesse motivazioni. I cinesi sono accusati di praticare su larga scala uno spionaggio industriale che gli consente di rubare dati sensibili, brevetti, e altre informazioni utili. La copia senza licenza dei prodotti occidentali, e la violazione dei diritti d'autore, è d'altronde talmente diffusa che non è nemmeno necessario discuterne, essendo evidente e comprovata. La situazione risulta però peggiorata dall'atteggiamento delle autorità cinesi che non riconoscono i diritti degli stranieri, e nemmeno attribuiscono un valore legale alle sentenze dei tribunali internazionali, valendo il principio dell'assoluto primato della sovranità nazionale. Alcuni commentatori hanno perciò rivolto ai cinesi pesanti accuse perché, a loro dire, mostrerebbero la totale assenza di un'etica. Tuttavia, dal punto di vista dell'antropologia culturale, i cinesi non sarebbero privi di un'etica, ma più semplicemente avrebbero un'etica diversa, ovvero la cosiddetta "etica confuciana" basata sulle cinque relazioni (wu lun). Queste relazioni sono sovrano/suddito, padre/figlio, marito/moglie, fratello maggiore/minore e amici. Con le cinque relazioni si esaltano i concetti di obbedienza, fedeltà, pietà filiale e fiducia. In questa etica ovviamente non rientrano gli stranieri che rimangono così esclusi dal rispetto delle regole della convivenza civile, e subiscono lo stigma sociale di appartenere a un paese diverso (il concetto di fedeltà al sovrano implica come sottinteso l'ostilità verso i paesi stranieri). 

I furti di brevetti e le copie non riguardano soltanto l'industria civile, ma coinvolgono massicciamente anche il settore militare. Fra i casi più noti ricordiamo il Sukhoi Su-27 e la sua copia cinese Shenyang J-11B. Nel 1998 Pechino aveva regolarmente pagato 2,5 miliardi di dollari per la produzione su licenza di 200 caccia Sukhoi Su-27SK, ma nel 2002 fu realizzato il prototipo dello Shenyang J-11B, che era dotato di avionica, armamento e motori cinesi, e venne perciò considerato un aereo autoctono. Nel 2004 la produzione del Su-27SK fu sospesa, e sostituita con il nuovo caccia di fabbricazione locale. Dopo l'avvio della produzione del J-11B apparve evidente che il programma di Pechino era utilizzare il Su-27 come punto di partenza per le versioni costruite dalla Shenyang senza licenza. Dopo il J-11B seguirono molte altre copie non autorizzate, fra cui il J-11D, il J-15 (copia del Su-33) e il J-16 (imitazione del Su-30). Un caso di copia illecita riguarda anche l'Italia. Infatti, 90 esemplari del missile Aspide Mk 1 prodotto da Alenia furono ordinati dalla Repubblica Popolare Cinese nel 1986, e vennero regolarmente consegnati a partire dal 1987. Ma la commissione fu sospesa a causa dell'embargo sulle armi imposto dopo la sanguinosa repressione delle proteste di piazza Tienanmen del 1989. Tuttavia Pechino continuò la produzione locale copiando le componenti che erano già a disposizione, ed ottenne così il missile aria-aria a guida radar semiattiva chimato PL-11, e il sistema antiaereo superficie-aria LY-60. 

Un altro caso clamoroso è rappresentato dal furto di dati che riguardano il caccia stealth F-35. Il 28 giugno 2014, l'uomo d'affari cinese Su Bin, in quel momento residente a Vancouver in Canada, venne arrestato con l'accusa di aver rubato dati riservati del caccia F-35 attraverso i sistemi informatici. In seguito Su Bin confessò il reato, fornendo anche utili particolari per ricostruire la vicenda, e venne condannato. Gli hacher cinesi erano già intervenuti anche in precedenza, sottraendo informazioni e dati tecnici dell'F-35, nel 2009 al Ministero della Difesa americano, e nel 2012 alla BAE Systems. Successivamente, si sono registrate altre violazioni e tentativi di accesso non autorizzato alle banche dati per sottrarre informazioni riservate. Questi furti di dati hanno permesso la costruzione, in tempi estremamente contenuti, del caccia stealth Shenyang J-31 Huying (Girfalco), attualmente noto con la sigla per l'export FC-31, che rivela chiaramente con il suo aspetto esteriore la diretta derivazione dall'F-35. 


La fabbrica delle menzogne 

La pandemia del coronavirus diffusasi nel 2020 non è stata soltanto la più grave emergenza sanitaria degli ultimi tempi, ma costituisce anche la più enorme operazione di insabbiamento e manipolazione dell'informazione che sia stata mai attuata, con la quale la Cina ha dimostrato di avere ormai i mezzi per estendere il suo sharp power, con la sua baldanzosa retorica, perfino in Occidente. Cominciamo con ordine per ripercorrere precisamente l'intera vicenda, che è divenuta ingarbugliata e confusa a causa della mistificazione della propaganda cinese. I primi casi di una insolita forma di polmonite furono registrati dai medici cinesi già nel mese di novembre del 2019, e gli scienziati hanno quindi ricostruito la diffusione del contagio del coronavirus 2019-nCoV (più noto come malattia del COVID-19) stimando una diffusione iniziale in Cina nei mesi di ottobre e novembre. Sappiamo con certezza che il medico cinese Li Wenliang, che lavorava all'ospedale centrale di Wuhan, all'inizio di dicembre aveva isolato e identificato il coronavirus, lanciando immediatamente l'allarme. Ciò provocò la reazione della polizia, che impegnata nel censurare e nascondere la nuova emergenza, fermò e ammonì Li Wenliang accusandolo di diffondere informazioni destabilizzanti e pericolose per l'ordine pubblico. Anche la dottoressa Ai Fen, direttrice del pronto soccorso di Wuhan, subì la pesante pressione della polizia che intendeva nascondere l'epidemia con i soliti metodi brutali. Ma la gravità dell'epidemia non poteva essere nascosta completamente, e soprattutto molto a lungo. Ufficialmente, il 31 dicembre 2019 i medici cinesi avevano comunicato all'OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) l'esistenza di un nuovo pericoloso coronavirus, tuttavia la puntuale censura del regime continuò a nascondere la minaccia all'opinione pubblica nazionale e mondiale. Secondo alcune ricostruzioni, anche il presidente Xi Jinping era a conoscenza dei fatti molte settimane prima delle comunicazioni ufficiali. Si calcola che il regime cinese sia responsabile di un ritardo di quasi un mese nella segnalazione dell'epidemia, con ovvie conseguenze disastrose. Ciò significa che in quel periodo, fra novembre e gennaio, migliaia di turisti e lavoratori cinesi hanno potuto viaggiare indisturbati nel mondo senza nessun controllo e prevenzione. Ciò spiega perché l'epidemia di COVID-19 nata in Cina nel 2019 si è potuta trasformare in una pandemia che ha coinvolto tragicamente l'intero mondo, mentre la SARS che fu scoperta nel novembre 2002, venne comunque contenuta. Anche nel 2003 si denunciarono le carenze cinesi, le omissioni, e la tendenza a insabbiare gli errori commessi, ma ciò fu però possibile, mentre nel 2019 la capacità di manipolazione del regime si è dimostrata molto più forte, e in grado di alterare gravemente l'informazione, arrecando danni catastrofici. Un altro grave sacnadalo, in questo senso, riguarda il direttore dell'OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità), l'etiope Tedros Adhanom Gebreyesus, che fu eletto nel 2017 soprattutto grazie ai voti cinesi, e ciò ha comportato il suo atteggiamento sostanzialmente subalterno e favorevole ai suoi sponsor. L'azione di lobbying cinese nei confronti dell'OMS è stata davvero deprorevole. A gennaio l'OMS ha infatti minimizzato i rischi dell'epidemia, fiancheggiando l'operazione di insabbiamento del regime cinese, poi ha cambiato atteggiamento lanciando un allarme tanto forte quanto tardivo, ma nonostante ciò ha continuato a consigliare di non chiudere le frontiere e i collegamenti con la Cina (suggerimento fortunatamente inascoltato), e infine ha lodato gli sforzi di contenimento dell'epidemia da parte del governo cinese, invece di denunciarne i colpevoli ritardi. L'altro scandalo riguarda i dati falsificati circa le vittime dell'epidemia in Cina. Secondo Pechino i morti sarebbero stati circa 4.600, ma questa è una cifra assolutamente ridicola confrontata con la popolazione cinese coinvolta, e non corrisponde minimamente alle previsioni calcolate da matematici e statistici, e soprattutto non rispecchia il numero di vittime che si sono registrate in altri paesi. Alcuni giornali hanno però pubblicato immagini che fanno vedere le urne cinerarie raccolte a Wuhan, e ne mostrerebbero chiaramente decine di migliaia, sbugiardando clamorosamente un altro misfatto della propaganda. Secondo alcune stime i morti in Cina potrebbero essere stati addirittura fra 40.000 e 50.000. Infine, ed è l'aspetto più importante, c'è stato l'avvio di una martellante campagna di propaganda per affermare l'efficienza e la superiorità della società cinese, esaltare la guida del Partito Comunista Cinese (PCC), e glorificare il comando esperto e competente del compagno Xi Jinping. Un totale rovesciamento dei fatti accaduti che è assolutamente grottesco, con un'esasperata esaltazione della figura del presidente Xi Jinping, e un malsano culto della personalità con risvolti davvero inquietanti. La consueta "educazione patriottica" del popolo è stata così rinnovata con l'introduzione di una nuova forma di "educazione alla gratitudine" che non si è limitata ai confini cinesi, ma ha investito altri paesi con presunti aiuti (in realtà materiale sanitario regolarmente pagato), e la pretesa di riconoscenza nei confronti di chi si presenta come il nuovo "salvatore del mondo". La macchina della propaganda cinese ha così raggiunto risultati che non erano mai stati conseguiti da un regime totalitario, e si è giustamente guadagnata la definizione di "fabbrica delle menzogne" grazie a una produzione di disinformazione a livelli industriali. 


Il mondo della post-globalizzazione 

Il progetto della "Nuova Via della Seta" sarà molto probabilmente reso superato dai tragici eventi che stanno sconvolgendo il mondo, e che stanno riscrivendo drasticamente la storia. Infatti, il concetto stesso di globalizzazione è entrato in crisi, e appare anacronistico nei confronti di quanto sta accadendo. L'emergenza della pandemia non ha cambiato soltanto i rapporti fra le nazioni, ma ha anche imposto pesanti restrizioni a tutti gli individui. Ciò significa semplicemente che l'idea sostenuta con la globalizzazione di un mondo trasformato in un "villaggio globale", senza frontiere e con un'assoluta libertà di circolazione di merci e persone, sembra decisamente fallita, o almeno fortemente ridimensionata. Il progetto della "Nuova Via della Seta" si fonda appunto sulla convinzione di una crescita infinita e senza limiti, con la Cina che avrebbe preso autorevolmente la guida di un nuovo modello di globalizzazione dotato di "caratteristiche cinesi". Questa svolta sarebbe stata favorita anche dai cambiamenti politici degli ultimi anni. Infatti, con l'elezione del presidente Donald Trump nel 2016, gli Stati Uniti hanno mutato atteggiamento nei riguardi della globalizzazione. Bisogna notare che Trump fu eletto grazie appunto a una campagna contro la globalizzazione e i suoi aspetti negativi, come le delocalizzazioni, la perdita di posti di lavoro, l'abbassamento dei salari, il calo del potere d'acquisto, e la bilancia commerciale americana fortemente negativa. Quindi Trump rappresentò abilmente le istanze antiestablishment e contro la globalizzazione che si erano create nelle società occidentali, e divenne il paladino del cosiddetto sovranismo, con idee che ha poi applicato concretamente con il protezionismo e la guerra dei dazi. Viceversa il presidente Xi Jinping ha cercato di accreditarsi come alfiere della globalizzazione e del libero mercato, una evidente contraddizione se si considera che è anche il segretario del più grande partito comunista, che tuttavia la retorica (e una buona dose di faccia tosta) è riuscita ad affermare nonostante la palese ipocrisia. Il 17 gennaio 2017, il presidente Xi Jinping tenne uno storico discorso al 47° Forum Economico Mondiale a Davos, nel quale difendeva la globalizzazione, definita un processo inarrestabile e irreversibile. Sottolineava inoltre che ormai nessuno avrebbe potuto fermare il libero scambio di merci, capitali e persone tra le economie del mondo. Oggi, purtroppo, sappiamo che qualcosa ha potuto fermarlo, e non è stata una persona particolare o un politico, bensì un virus. Comprendere le conseguenze economiche e sociali di questo fenomeno è sicuramento complesso, ma abbiamo l'obbligo di chiamarlo con un nome preciso, ovvero post-globalizzazione. La fine dell'era della globalizzazione avrà senza dubbio ripercussioni fortissime, e ciò riguarderà tutti, compresi i paesi che come la Cina sognavano una crescita infinita e inarrestabile. 


L'alternativa alla "Nuova Via della Seta" 

Un aspetto quasi ironico, concerne la "Nuova Via della Seta", che partita nel 2013 non è stata ancora completata, e già viene contrastata da altri progetti, e soprattutto dal nuovo corso della storia. La Free and Open Indo-Pacific sta interessando molti paesi asiatici perché offre appunto un'alternativa, e si afferma con più vigore una possibilità di sostituire un progetto ormai considerato dannoso e tossico dalla comunità internazionale. Infatti, la pandemia ha dimostrato ancora una volta quanto sia inaffidabile Pechino, e quanto siano pericolosi i rapporti commerciali e i legami politici che sono dettati unicamente dalla smania di potere e dominio. Per questo motivo la Free and Open Indo-Pacific ha elaborato un piano di certificazione chiamato Blue Dot Network che dovrebbe garantire la trasparenza, l'affidabilità e la sostenibilità dei finanziamenti. In questi decenni Pechino ha sempre promesso di investire nel Sud-Est Asiatico, ma in realtà è arrivato molto poco alle aziende dei paesi della regione, perché la politica cinese intende favorire solo le aziende nazionali. Si pensi che i progetti infrastrutturali giapponesi nel Sud-Est Asiatico sono già superiori a quelli cinesi in termini di valore economico (321 miliardi di dollari contro 255), e non sono mancati altri finanziamenti a paesi cruciali come le Filippine. Invece nel Vietnam il principale investitore sono gli Stati Uniti, e questo è indicativo per capire il reale rapporto di forze in atto nell'Asia. Da un punto di vista strategico, il Giappone si pone l'obiettivo di perseguire una strategia geopolitica volta a superare la tradizionale alleanza con gli Stati Uniti, e la sua ottica e logica bilaterale, per costruire una strategia basata su una logica multilaterale, come sta cercando di fare con l'adesione al Quadrilateral Security Dialogue, che consente consultazioni e collaborazioni in ambito militare con l'India e l'Australia. D'altronde la Free and Open Indo-Pacific Strategy si presenta anche come un'opportunità del mondo post-globalizzazione, ridiscutendo e negoziando nuove regole per l'Asia che non possono essere più dettata dalla Cina, ormai considerata come il nemico principale di tutti i paesi dell'area. Soprattutto queste regole devono stabilire dei precisi diritti, garantire i lavoratori, e proteggere i cittadini da tutte le minacce militari e naturali (comprese quelle biologiche). 


La crisi della Cina 

L'immagine della Cina come uno stato invincibile, destinato a una crescita inarrestabile, è ormai uno stereotipo della stampa che sta divenendo anche tremendamente noioso, perché meriterebbe anche qualche approfondimento più articolato che fornisca un quadro meno ripetitivo e appiattito sulla propaganda del regime. Risulta evidente che la crisi economica che sta colpendo l'intero mondo si abbatterà duramente anche sulla Cina, e non bisogna farsi ingannare dai dati forniti da Pechino che sono ampiamente manipolati per suggestionare l'Occidente. La crescita economica in Cina è avvenuta grazie a due fattori: la bilancia commerciale ampiamente positiva grazie all'export e la crescita del settore edilizio (con una cementificazione senza precedenti che ha danneggiato gravemente l'ambiente). La crisi mondiale ha già ridimensionato le esportazioni cinesi, e la bilancia commerciale rimane leggermente positiva soltanto grazie al crollo delle importazioni (ciò significa il drastico calo dei consumi e una tendenza recessiva dell'economia). 

In realtà la Cina ha giganteschi problemi sia interni sia esterni, e sono ovviamente soltanto quest'ultimi che possiamo conoscere a causa della stringente censura del regime. Tuttavia analisti, sociologi, ed economisti sono riusciti comunque a fornire un quadro del paese molto differente dall'immagine ufficiale presentata dalla classe politica dominante, nonostante la chiusura e le difficoltà ad accedere alle informazioni, così da poter conoscere meglio anche la situazione interna del paese. L'economia cinese è infatti ben diversa dall'essere quel gigante invincibile così come è rappresentata dai media mainstream. Il prodotto interno lordo cinese nel 2019 è cresciuto soltanto del 6% circa, ed era già in continuo rallentamento, ma soprattutto è ben lontano dai trionfali tassi di crescita a due cifre di inzio secolo. Ma sono altri i fattori che preoccupano. La Cina in questi anni è diventata un paese sempre più chiuso e inaccessibili, e recentemente si sta assistendo a una fuga dei capitali degli investitori stranieri. La legislazione è infatti sempre più severa e svantaggiosa per gli operatori economici stranieri, inoltre una normativa unica e pesantemente restrittiva impedisce l'accesso al web, penalizando ed escludendo i colossi stranieri, e fornendo un enorme vantaggio alle aziende locali. Ciò impedisce qualsiasi competizione leale, ed è una grave distorsione del mercato che così non è affatto libero. Questa situazione si protrae da molti anni, e sta divenendo insostenibile, anche perché simili restrizioni non esistono in Occidente. 

Le distorsioni del mercato cinese non danneggiano soltanto l'Occidente, ma anche la Cina perché provocano mancanza di competizione, clientelismo e corruzione, con una cattiva gestione che genera una commistione perversa fra stato, partito comunista ed economia. Ciò si ripercuote sui sistemi del finanziamento con una preoccupante crescita dei debiti di famiglie e imprese. Il governo di Pechino ha incentivato in modo eccessivo il ricorso al credito per stimolare la domanda interna, ma l'abbondanza di investimenti ha provocato sprechi e inefficienze, frutto di una corsa per accaparrarsi i finanziamenti ottenuti tramite la corsa alla crescita.  Queste sono le cause di un indebitamento senza freni, e inoltre si deve notare che questi debiti risultano molto più pesanti per le famiglie cinesi perché dispongono di un Pil pro capite, e soprattuto di un reddito medio, molto più basso di quello occidentale. Un cinese in media possiede un reddito che è un quarto di quello americano, e meno della metà di quello europeo. Così diventa difficilissimo per la Cina raggiungere gli standard occidentali, diventando un'economia avanzata, ma rischia viceversa di rimanere nella categoria dei paesi in via di sviluppo. Infine, a causa di queste distorsioni del mercato, gli investimenti in Cina producono sempre meno profitti, e ciò spiega un altro fenomeno, ovvero la fuga dei capitali dalla Cina e gli enormi investimenti cinesi all'estero. 

La crisi della Cina non è però soltanto economica, ma anche politica come dimostrano le rivolte a Hong Kong nel 2019. Iniziate come manifestazioni pacifiche contro la legge sull'estradizione, sono diventate poi proteste violente con scontri durissimi con la polizia, e l'intervento del governo di Pechino che ha condannato gli eventi definendoli "atti terroristici". Gli scontri a Hong Kong hanno mostrato un vulnus della politica interna della Cina, e quanto sia debole la capacità di mediare le istanze della popolazione con le esigenze del potere politico, determinando una pericolosa spaccatura sociale con gravissime implicazioni. I successivi eventi hanno fatto dimenticare quanto successo recentemente, ma le tensioni politiche a Hong Kong, l'insistenza sull'appartenenza di Taiwan alla Cina continentale, e le aspirazioni indipendentisctiche nello Xinjiang e in Tibet, sono tutte questioni destinate a esplodere drammaticamente, e a rivelarsi ingestibili. 


Le tensioni militari nell'Oceano Pacifico

Mentre l'epidemia di COVID-19 imperversava ancora in Cina, le forze militari avviavano una serie di esercitazioni per distogliere l'attenzione dai problemi reali e contingenti che affliggevano il paese. I bombardieri H-6 iniziarono a svolgere una serie di esercitazioni nei pressi di Taiwan, provocando l'irritazione delle autorità politiche dell'isola. Nei giorni 8-11 aprile 2020, un gruppo navale costituito dalla portaerei Liaoning, due cacciatorpediniere, due fregate, e una nave di supporto, ha attraversato lo stretto di Miyako e si è diretto verso sud in direzione di Taiwan. L'operazione ha avuto una enorme copertura mediatica da parte degli organi della propaganda, e come ormai avviene di consueto, ha trovato anche la sponda dei media occidentali estremamente permeabili e influenzabili. Le esercitazioni sono state ovviamente descritte come la dimostrazione della ripresa della Cina e della difficoltà dell'Occidente, destinato a essere travolto dalla sua forza inarrestabile. Si dimenticava però di descrivere le esercitazioni condotte dalle forze avversarie nell'area. Il 25 gennaio 2020, la littoral combat ship Montgomery aveva attraversato il Mar Cinese Meridionale nei pressi delle isole Spartly, per svolgere un'operazione FONOP (Freedom Of Navigation Operation) per affermare la libertà di navigazione nelle acque rivendicate dalla Cina. Il 10 aprile, il cacciatorpediniere lanciamissili Barry attraversava lo stretto di Taiwan, per affermare l'indipendenza dell'isola dalla Cina continentale. Nei giorni  9-11 aprile la nave anfibia America, dotata dei cacciabombardieri F-35B, si esercitava insieme al cacciatorpediniere giapponese Akebono nel Mar Cinese Orientale, per ribadire la protezione fornita alle isole nipponiche. Tutte queste esercitazioni dimostrano che la Cina non è sola nell'Oceano Pacifico, non è la forza principale che lo controlla, e soprattutto non è in grado di impedire ai suoi avversari di svolgere le proprie attività. E col passare del tempo, ciò sarà sempre più chiaro, anche grazie a progetti ambiziosi come la Free and Open Indo-Pacific, e la seria determinazione a fermare le ambizioni egemoniche cinesi.